Varichina

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Varichina

Un’opera originale, ancora vergognosamente senza una distribuzione, che racconta la storia di un pittoresco gay barese, Lorenzo De Santis, soprannominato «Varichina», che ha fatto da solo un lungo gay pride in anni in cui dei gay non parlava quasi nessuno. I registi Antonio Palumbo e Mariangela Barbanente, hanno detto di aver avuto l’idea del film dopo aver letto l’aricolo di Alberto Selvaggi pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno, un lungo articolo che riportiamo qui sotto e che rimane l’unica testimonianza, del “pioniere di tutti i Gay Pride”.
Fino allora ‘Varichina’ era un personaggio noto solo alle persone che l’avevano conosciuto personalmente. Dario Fasano, sul Corriere del Mezzogiorno, parla così del film: “A metà strada tra film e documentario, Varichina racconta la storia di un gay sconveniente e pittoresco attraverso testimonianze vere e ricostruite. Totò Onnis interpreta il protagonista, Ketty Volpe e Federica Torchetti le vicine. E poi c’è chi lo ha conosciuto: l’omosessuale di piazza Umberto che racconta la corte sfrenata che ha subito: «Ma a me Lorenzo non piaceva». O gli aneddoti: Varichina maschera in un cinema a luci rosse improvvisato da un gruppo di adolescenti in un sottoscala. Gli sceneggiatori sono partiti dalla dimensione più intima e privata del personaggio, fino ad arrivare alla sua fine (è morto nel 2003 a 65 anni) in una casa di riposo, seduto su una sedia a rotelle con una gamba amputata. «Io non sapevo nulla di Varichina – spiega Mariangela Barbanente, sceneggiatrice barese trapiantata a Roma – non c’è materiale visivo, solo due o tre foto, compresa quella della lapide. Antonio Palumbo invece lo conosceva. Ha avuto l’idea dopo aver letto un articolo di Alberto Selvaggi che raccontava questo personaggio fuori dalle righe». «Io l’ho sfottuto Varichina – racconta Antonio Palumbo, regista e attore barese – al di là degli aspetti macchiettistici che non ci interessavano abbiamo voluto raccontare la diversità, cosa significava in quegli anni essere ”originali” in provincia».” I registi spiegano che “al di là degli aspetti macchiettistici che non mi interessavano, abbiamo voluto descrivere la diversità, cosa significava in quegli anni essere ”originali” in provincia. A Bari ricordo che era addirittura difficile vestirsi in maniera non convenzionale. Essere artisti significava fare un lavoro che non apparteneva alla “normalità”. Figuriamoci dichiararsi gay… Raccontiamo una storia, non facciamo prediche a nessuno, né diamo insegnamenti, anche se un’idea chiara la abbiamo eccome ed emerge dalla pellicola”.


Dalla Gazzetta del Mezzogiorno (2/6/2013)

Un busto per il mito diverso – Viva Lorenzo «Varichina»!

di ALBERTO SELVAGGI

Scusa, chi sei tu, Nichi Vendola, presidente della Regione, governatore, roba del genere? Vieni qui, bello allo zio. E tu, Paola Concia, i pax, le cose, l’omo e la trans-fobia. E tu, Franco Grillini, Arci-inverter, tenzoni dialettiche vaticanesi. E voi, altri fighetti dei negozi baresi che ve la tirate manco Valentino (un genio) o Dolce & Gabbana (Artisti magnifici), tesserati alle saune, ai locali «in» transgender, ai resort convenzionati gay-friendly, immunoprotetti intellettualesi Lgbt/ci, e quanti ne siete: in ginocchio, e muti davanti all’aura di chi ha combattuto per i diritti al modo più chiassoso, scriteriato, stradaiolo, sub-proletario, teatrale e volgare osceno nei tempi dei pionieri. Sguardo a terra, per la miseria, davanti a chi ha fatto di un’intera vita un gay-pride in solitaria perenne: Lorenzo De Santis, detto «Varichina», primo, anzi unico omosex oltranzista, urlante, pressoché animalesco della storia incolore di Bari.

Io canto il mito di Varichina, da pronunciarsi con l’erronea «i» e giammai con la «e». Il personaggio, con Piripicchio, più famoso di sempre. E che i tombini, più che la musa, mi assistano. Amato, citato dagli accattoni come dai notabili celebri, con la sua zazzerona sconnessa e riccia color acqua marcita, schiumata di rame biondastro alterno, coi suoi pantaloni a zampa strizzati su chiappe e pudenda, con le sue camicie ad alettoni marron-blu tenebra col nodo sul ventre, inimitabili nella sublimazione dell’abominevole, coi suoi «l’ femmn hann’ a murì e tutt’ ddò avìt’ a frnèsc», «rdìt, rdìt’, ke tutt ddò dret’ avìt a vnì» gridati da decine di metri battendosi col palmo il gluteo in sculettio virulento, con i «cciè vol’ da me kessa zògn» (uomo), «ciao bello!» rivolti alla cieca data la grave miopia, con il cabaret a bordo del bus n. 12, i motteggi alle lucciole da porno cinema, «send’ nu fiiìzz d’ picc…», ricchionerie da D-movie, non B, irresistibili, con i botta e risposta coi ragazzi molesti, Lorenzo si impossessò dell’immaginario fin dai primi Settanta donando a ogni cittadino una gag da riferire, donne comprese.

Da oltre un ventennio era svanito nell’ombra del mito: alcuni lo davano morto in terra straniera, per setticemia, overdose di ero, altri collassato in una casa di cura in provincia, altri ancora – leggenda nata da alcuni infermieri –, come Jim Morrison o Moana Pozzi ancora vivo pur se ai minimi termini. In questi giorni i fan cercavano per l’ennesima volta nostalgicamente lumi sui forum inneggiando all’avanguardista della diversità trash. E quindi è giusto far sapere che Varichina è ancora nella città natia; che il 26 aprile 2003 si è trasferito nel seminterrato della chiesa di San Francesco, campo 20, lotto 322, in via Crispi, con un mazzo di gigli finti e una fiamma perpetua sul marmo di neve; e che sua sorella Rosa, classe ’23, primogenita che gli somiglia parecchio, unica superstite della famiglia, sul balcone al secondo piano di via Dante, con la solita bandana gialla marrone sulle tempie guarda il cimitero vicino e pensa: «Lore’».

Varichina nacque da Biagio De Santis e Vittoria Aprile sotto la stella bizzarra dell’avvenire il 27 settembre 1938. Si impossessò presto di una inflessione «filo-barivecchiana» gutturale stretta che rese le sue stravaganze ancora più pregne. Ultimogenito dopo Rosa, Antonia, del ’25, e i gemelli Gaetano e Giuseppe, ’34, «venne sconosciuto» (ripudiato) dalla famiglia, come ricordano gli amici gay dell’epoca, fin dai primi vagiti «di malattia» (omosessualità).
Ne soffriva ancora, a fine anni Ottanta lo ripeteva, consolato dagli amanti «che lo sfruttavano spesso», che «facevano i fatti loro e poi lo buttavano a mare», o da una vicina al pianterreno di via Garruba 110, la stamberga volante del suo epos, e «certe volte piangeva».

Lo soprannominarono Varichina perché da ragazzo, dopo essere stato garzone di latteria per le periferie, vendeva candeggina in bici e la utilizzava a tempo perso come sguattero a nero nel Policlinico e nei pubblici cessi. Ma la verve, l’invenzione, l’effervescenza talvolta violenta, e quella deformante inclinazione caricaturale sopra le righe, al Libertà lo resero inconsapevole emblema del riscatto dei gay.

Che vita la vita da Varichina. Campava tra la ex Posta centrale e i giardini davanti a Giurisprudenza, «piazza Umberto», come ancora oggi alcuni gay settantenni e ottantenni chiamano piazza Cesare Battisti. «Era il nostro regno », racconta Francesco, 80 anni, «le puttane stavano dall’altra parte dell’Ateneo». C’era un pisciatoio in ferro a due posti, sede per pattuire, talvolta consumare incontri di sesso. «D’estate andavamo sugli scogli del molo Sant’Antonio, in pineta, ad abbordare nei cinema», racconta Vincenzo, 76 anni, amico e quasi coevo di Lorenzo, luccicante e lustro ancora come un gioiello. E «il molo col faro» era citato anche nella Guida Omosex semiclandestina dell’epoca. Oppure «cercavamo alla stazione centrale i soldatini» per consumare negli alberghi a ore vicini, nel monovano di un marchettaro che menava lì squallida vita. «O nei wc finché erano gratuiti e sistemati all’esterno della ferrovia. Oppure andavamo alla Moscia», vicino alla Fiera, allo Stadio vecchio, nei piazzali alle spalle dell’ei fu macello, «in macchina o in piedi». Poveri, benestanti, «velati» (sposati), ricchi come un noto industriale e un famoso medico che ha deposto i ferri. Come alcuni politici di scuola fine.

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