Cinema

Venezia 75 - "BÊTES BLONDES" una dark comedy dell’assurdo e una riflessione sulle infinite forme d’amore

Da Venezia 75 la recensione del critico Sandro Avanzo

“BÊTES BLONDES”

di Alexia Walther e Maxime Matray

Tendenza: 3/5 (GGG)
Voto:

John Waters docet anche sul lato ovest dell’Atlantico. C’è molta della sua estetica in questa curiosa ed anomala opera francese realizzata a quattro mani, primo lungometraggio della coppia Alexia Walther-Maxime Matray presentato al Lido nella sezione della Settimana Internazionale della Critica. La si identifica fin dalle prime inquadrature dove è citato l’orgoglio nazionale di Le déjeuner sur l’herbe, ma in versione marcita e maleodorante, piena di insetti saprofagi e lumache bavose. Del resto non si può non riconoscere evidente l’ispirazione del trasgressivo regista di Baltimora nelle varie situazioni e negli assurdi personaggi che via via si succedono sullo schermo: club di coprofagi, blasfemi, amanti della saliva, necrofili e tutto il catalogo dei possibili oltraggiosi e (cosiddetti) perversi.

Per primo il protagonista Fabien, tramontata star di una sitcom televisiva di breve durata nei ‘70/’80, il quale si rivela afflitto da un variegato concentrato di infermità a seguito di un incidente stradale. Una particolare intolleranza alimentare lo spinge verso una voracità famelica, per cui si ingozza senza mai raggiungere la sazietà, ma dato che ha perso il senso del gusto e dell’olfatto può ingerire senza problemi qualsiasi nefandezza vegana o carnivora, mer*a e str**zi compresi (stranamente e immotivatamente va però ghiotto per il salmone); ha perso anche la sensibilità al dolore in varie parti del corpo, dunque quand’anche le sue ossa vadano a perforargli i tessuti muscolari non percepisce dolore alcuno; oltre che alcolista è anche narcolettico, ma un narcolettico del tutto sui generis che a ogni risveglio non ricorda cosa gli è capitato nelle ultime ore e negli ultimi giorni (nei modi de Il giorno della marmotta). Nel suo stare on the road incontra il giovane e triste Yoni, più un garagista e un ladruncolo d’auto che non un autentico militare come si qualifica, il quale in Costa d’Avorio ha perso il fidanzato alla vigilia delle nozze. Tale fidanzato/quasi marito verrà ritrovato dai due in una villa assai fuori Parigi, nettamente segato in due parti – da una parte la testa e dall’altra il corpo – dentro una bara pronta per il funerale. A una fermata d’autobus un tir ha perso le lastre d’acciaio che trasportava e così l’ha decapitato di netto. Alla nostra coppia di sballati protagonisti non resta che rubare la testa (viene definita “pegno d’amore”), ficcarla a forza dentro una tracolla e fuggire rubando un’auto. Verrà via smarrita, rubata da uccelli rapaci, ritrovata, ri-perduta, messa a dormire sul proprio cuscino… Non è l’unica testa tagliata che vedremo nel corso del film, un’altra compare addirittura in grado di parlare nelle vesti di analista tra le mani della “proprietaria” e allora sembra proprio di esser capitati in un film di Buñuel.

Metafora divertente dentro metafora paradossale, l’intero Bêtes blondes si sviluppa come un viaggio trasversale tra campagna e metropoli (dove mai si potrebbe trovare l’ultima sputacchiera pubblica francese se non in bar sotto la Tour Eiffel?), ma anche tra i differenti generi cinematografici (il melò come il polar, il dramma come il pamphlet politico), in un costante attraversamento e rispecchiamento di similitudini e divergenze che coinvolgono anche le vicende personali e sentimentali dei due protagonisti i quali a un certo punto potrebbero perfino rivelarsi essere padre e figlio (poteva mai mancare l’agnizione?). Dunque, espresso in questi termini, il film sembra davvero una dark comedy dell’assurdo (definizione che calza a pennello), ma si rivela in realtà come una riflessione sulle infinite forme d’amore, sulle colpe e i rimorsi che ogni passione lascia dietro di sé e nel contempo si pone come un ragionamento semantico su debiti e crediti della serialità tra lo schermo televisivo e l’industria contemporanea del cinema (le scene risolutive del finale del lavoro di Alexia Walther e Maxime Matray sono del tutto sospese in posizione equivalente tra i due media). La tragedia ridicola dell’amore tra Yoni e il suo decapitato fidanzato, punto nodale attorno a cui si intrecciano tutti gli sviluppi della storia, va chiaramente interpretata in chiave metaforica e il grottesco con cui è connotata è un chiaro atto d’affetto da parte dei due autori verso il loro paradossale personaggio. Avrà questo film una distribuzione italiana? Difficile a dirsi, a meno che un possibile premio veneziano dei critici internazionali presenti alla Mostra non lo metta in evidenza agli occhi dei nostri distributori nazionali. A noi non dispiacerebbe affatto!

Sandro Avanzo

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