Cinema

Il Queer Lion 2018 inizia sotto l’insegna di Saffo

Dalla 75ma Mostra di Venezia le recensioni del critico Sandro Avanzo.

LA PAGELLA DI SANDRO AVANZO

Strano telo

Tendenza: 3/5 (GG)
Voto: 

Friedkin Uncut

Tendenza: 2/5 (G)
Voto: 

Doubles vies (Non-Fiction)

Tendenza: 1/5 (L)
Voto: 

C’est ça l’amour (Real Love)

Tendenza: 2/5 (L)
Voto: 

José

Tendenza: 5/5 (GGG)
Voto: 

 

Primi giorni di festival al Lido e già sono passati sugli schermi, in gran numero, i primi film in corsa per il Queer Lion 2018. Con la grande novità di un’inedita Sezione Fuori-Concorso in cui da quest’anno alla già corposa lista di titoli in lizza per il leone rainbow si vanno ad affiancare quei documentari e quelle pellicole fuori-formato che non possono rientrare nel concorso queer ufficiale.

Friedkin Uncut

di Francesco Zippel

Tra i primi va ricordato “Friedkin Uncut” che Francesco Zippel ha realizzato a partire da lunghe interviste al trasgressivo regista americano durante la kermesse festivaliera al Lido dello scorso anno, quando venne presentato il suo documentario (autobiografico) sull’esorcismo “The Devil and Father Amorth”. Guardando direttamente lo spettatore, l’autore de “L’esorcista”, di “Il braccio violento della legge”, di “Vivere e morire a Los Angeles”, parla dei temi che più gli sono stati a cuore, racconta delle influenze che lo hanno segnato e delle vicende che maggiormente hanno caratterizzato il suo cinema e ovviamente non può che ricordare con partecipazione gli antefatti e gli esiti del controverso cult “Cruising” che in epoca pre-aids riprendeva Al Pacino in tenuta leather battere in cerca di uomini negli angoli più segreti di Central Park e nelle discoteche più dark e più hot di New York.


Strano telo (Foreign Body)

di Dušan Zorić


(dalla locandina di “Strano telo”)

Mentre sono i 20 minuti (durata fuori norma ma con temi compatibili coi quelli del Queer Lion), a porre nel Fuori concorso il cortometraggio autobiografico “Strano telo (Foreign Body)” del serbo Dušan Zorić, momento di ricerca di una propria fisionomia sessuale tra l’infanzia, quando misurarsi il pisello è insieme un gioco e una sfida di supremazia nel gruppo dei compagni di classe e l’età adulta, quando si è costretti a mettere consapevolmente in relazione la propria virilità con l’aggressività verso gli altri e verso il mondo. La complessità della situazione è potenziata dal fatto che i due momenti sono separati dalla guerra degli anni ‘90 nei Balcani. Nello stesso tempo reticente ed esplicito nel raccontare l’aspetto omosessuale, il cortometraggio mette in mostra magnifici corpi maschili in un’esplosione di erotismo non sottolineato e proprio per questo più detonante.

La stessa sezione “Queer Lion Award: fuori concorso” evidenzia la presenza nel cartellone della Mostra 2018 di titoli importanti della cinematografia gay, così da invitare a rivedere nella loro dimensione naturale del grande schermo capolavori del calibro di “El lugar sin límites (Il luogo senza limiti)” di Arturo Ripstein (Messico, 1977), “Some Like It Hot (A qualcuno piace caldo)” di Billy Wilder (Usa, 1959), “M. Butterfly” di David Cronenberg (Usa, 1993, “Il portiere di notte” di Liliana Cavani (Italia, 1974), “Morte a Venezia” di Luchino Visconti (Italia, Francia, Usa, 1971). Occasione d’oro, sempre più rara, per rivivere storia del cinema, tappe del vivere omosessuale ed emozioni, tante emozioni!


Doubles vies (Non-Fiction)

di Olivier Assayas

Si son viste molte situazioni lesbiche in questo inizio di Mostra veneziana, trasversalmente in titoli di tutte le sezioni. Nell’intelligente e problematico film di Olivier Assayas “Doubles vies (Non-Fiction)” (corre per il Leone d’oro), ambientato nel mondo dell’editoria in bilico tra la carta stampata e il futuro digitale, irrompe inaspettato un esplicito rapporto lesbico tra un’assistente editoriale del web e la sua storica amante. Non è un passaggio narrativo fondamentale, ma serve da un lato a testimoniare come nel mondo intellettuale la presenza lesbica/gay sia una costante presenza enzimatica di rinnovamenti e stimoli culturali, e dall’altro a rendere più variegati e complessi i vari incontri, tradimenti e re-incontri tra i tanti personaggi che animano gli intrecci interpersonali e le loro infinite discussioni teoriche.


C’est ça l’amour (Real Love)

di Claire Burger

Più spazio e maggior importanza occupa il tema lesbico in un altro film francese, l’autobiografico “C’est ça l’amour (Real Love)” realizzato da Claire Burger e presentato nella sezione Giornate degli Autori. Assistiamo a vicende dal sapore anni ’70 con Mario, funzionario statale impiegato in un ufficio per gli immigrati, che sta per separarsi in modo assai civile dalla moglie. Non per contrasti irrimediabili, ma perché la vita spesso porta a questo, alla separazione dopo 20 anni di matrimonio per sperimentare nuove vie e trovare altri motivi di affermazioni di sé fuori dalla famiglia. E’ la moglie a lasciare il tetto coniugale e sotto ad esso, affidandole al marito, anche le due figlie Frida di 14 anni e Niki di 17. La prima incolpa il padre di non aver saputo trattenere la madre, la più grande lo difende e ne comprende le difficoltà affettive e pratiche. Il film segue fondamentalmente la storia di Mario, della sua particolare crisi esistenziale di adulto 50enne, ma anche di bambino non cresciuto, alle prese con sentimenti contradditori e difficoltà domestiche improbe per lui. Da acquerello solo all’apparenza pallido e quotidiano, il racconto si fa via via corale e diventa un affresco vasto e composito che mette a confronto solitudini diverse e differenti sensibilità. Grottesche e insieme tenere. La ragazzina incontra il suo primo amore in una compagna di scuola per la quale è disposta a sfidare il mondo con tutti i suoi mulini a vento, la più grande è disinibita ma non intende legarsi in relazioni stabili. Il padre non sa come reagire, con la prima non vuole dimostrarsi castrante ma non ha strumenti per affrontare l’imprevista situazione (buffissima la scena in cui tenta di imporre alle due innamorate di dormire nella stessa stanza, ma in due letti diversi e con la porta aperta per poterle controllare); con la maggiore difende più le posizioni para-borghesi del quasi-fidanzato che non quelle indipendentiste della figlia. Sarà solo l’amore che comunque lega tutti i personaggi (“omnia vincit amor” direbbe Virgilio) a far in modo che tutti alla fine trovino la strada per nuovi e più solidi equilibri, ciascuno alla sua maniera e con i propri mezzi. E il tempo aiuta a individuare il percorso adeguato. Nell’economia complessiva del film (tutto concentrato sul protagonista maschile e sul suo rischio di perdere le donne della sua vita), la seduzione di Frida (davvero sorprendente la giovane interprete Justine Lacroix) a causa di un semplice bacio, il suo totale darsi al turbine affettivo, l’amarissimo abbandono da parte dell’amata non hanno un peso determinante, restano momenti determinanti di un’educazione sentimentale posta in secondo piano. La vera forza trinante di tutto il film si rivela infatti fin dall’inizio la prova attoriale di Bouli Lanners, dolente ed emozionante, nella sua straordinaria misura tra il patetico e il grottesco. Lui fa per intero il film, lui è per intero il film.


José

di Li Cheng

Sempre nella sezione Giornate degli Autori si segnala un’originale opera 100% gay, “José”, diretta dal regista cinese Li Cheng (cinese di nascita, globe-trotter per vocazione) ma girata in Guatemala. Meno di un’ora e mezza per raccontare la situazione sociale, sessuale e familiare di un ragazzo gay diciannovenne, emblematica di tante migliaia di altre simili alla sua. Il ragazzo ha una madre molto religiosa che vive di piccoli commerci, uno stato lavorativo quanto mai precario (delivery boy per un ristorante di basso livello e su autobus affollati), un fidanzato che lo ama e che vorrebbe portarlo a vivere con sé lontano dal paese e dalla capitale. Il film ce lo mostra fin nella più impudica intimità, nudo frontalmente mentre fa la doccia, mentre fa l’amore con l’amato o con occasionali compagni incontrati per via. Nulla è sottratto allo sguardo dello spettatore, quasi come un caso studiato entomologicamente o antropologicamente. Da un lato la vita del protagonista, dall’altro la città con la sua vita fatta di traffico caotico di auto e bus, di proteste popolari, di mercati “all’occidentali” per borghesi e di quelli lungo le strade per il popolo più povero, di chiese e di quartieri alveari. In un vuoto esistenziale del genere è inevitabile per un giovane gay attaccarsi al telefono e trovare qui sesso occasionale. Ma non è con la memoria delle sue vicende e della sua realtà personale che lo spettatore esce dalla sala, queste diventano quasi un pretesto per raccontare la vita quotidiana di un paese pressoché sconosciuto al resto del mondo, una chiave più esplicita per spiegare il vivere metropolitano. Più che dalle scene hard degli incontri sessuali si resta impressionati dal machismo presente in ogni aspetto della cultura dominante, dall’importanza sociale delle varie declinazioni della religione cristiana, dalla violenza pronta a venir esercitata in pubblico in ogni circostanza e in qualsivoglia occasione. La fotografia utilizzata ha un che di grana grossa e la regia appare volutamente di fattura grezza, ma in realtà fanno entrambe parte di un voluto espediente per dare ai due piani – il privato e il pubblico – una maggior omogeneità. I travagli di José (e dei tanti ragazzi gay simili a lui) mostrati come in un documentario a fronte di riprese della città che diventano una fiction. Quale sarà il futuro di José (e del suo paese)? Non lo si può ancora sapere, lo si può solo intuire lungo una strada, su una moto insieme a un ragazzo che gli ha offerto un passaggio… Un modo di raccontare in stile più attuale vicende e realtà già viste (e forse anche più di una volta) nei lustri passati al TOgay.

Sandro Avanzo

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