Grande, titanico, immenso quest’ultimo film di Orson Welles. Sarebbe meglio dire “quasi di Orson Welles”. Perché quello che grazie a Netflix è arrivato in prima mondiale e fuori concorso a Venezia 75 non è certo la forma definitiva del film pensato dal grande regista, ma una ricostruzione assai prossima all’originale portata a termine dopo quattro decadi dall’amico e sodale Peter Bogdanovich: un’opera aperta, per dirla con la definizione di Umberto Eco.
Iniziata al ritorno di Welles a Hollywood nel 1970, e continuamente interrotta e ripresa per circa oltre 6 anni a causa dei continui problemi finanziari, la produzione si trascinò fino alla morte del regista che lasciò il film incompiuto e frammentato in oltre 1000 rulli finiti nel limbo di un deposito parigino. Tutti nell’ambiente cinematografico ne erano al corrente, ma nessuno era più riuscito a porvi mano, neppure Oja Kodar, ultima compagna e vestale del lavoro di Wells, che aveva perfino girato il film Jaded apposta per raccogliere i fondi necessari a completare e distribuire The Other Side of the Wind.
Solo nel 2017 lo sforzo comune tra il filmmaker Filip Jan Rymsza e il produttore Frank Marshall (che era stato il direttore di produzione al fianco di Welles al tempo dei primi ciak) riuscì a mettere in moto il processo di compimento del progetto di Welles. Nella nuova avventura di recupero sono stati coinvolti anche il musicista Michel Legrand, che ha composto una straordinaria partitura tutta jazz contemporaneo e pop vintage, insieme al film editor Bob Murawski (premio Oscar).
Per dare una prima idea del valore del film di Welles basti dire che al cast originale partecipavano i nomi più brillanti della cinematografia internazionale del periodo, da John Huston, a Susan Strasberg, da Peter Bogdanovich a Lilli Palmer e ancora Cameron Mitchell, Stéphane Audran, Dennis Hopper, Claude Chabrol, Paul Mazursky insieme a molti molti altri… li rivediamo oggi con immenso piacere cinefilo.
The Other Side of the Wind giustamente stato definito l’”8 e ½” di Welles, un’anomala opera in stile mockumentary che mescolando riprese a colori e in B/N incorpora un film dentro un film. Con chiari riferimenti autobiografici narra le vicende del regista J.J. “Jake” Hannaford (incarnato da un mesto e maestoso John Huston) al suo ritorno a Hollywood dopo anni di volontario esilio in Europa. Lì intende realizzare un nuovo film dai contenuti classici del cinema americano e dallo stile rivoluzionario avanguardistico europeo alla Antonioni che lo imporrà di nuovo all’attenzione mondiale, “un film completamente diverso da qualsiasi altro girato finora”. Nel corso delle riprese Hannaford, da sempre un mandrillo eterosessuale, finisce per innamorarsi dello scultoreo corpo del suo protagonista maschile. Quest’ultima complessa fatica di Welles è stata opportunamente definita “una meditazione sull’arte e il mestiere del cinema”.
Il coinvolgimento nelle riprese di autentici e celebri registi americani ed europei nel ruolo di sé stessi copre una vasta gamma di esperienze e di stili (Chabrol, Mazursky, Jaglom, Hopper, lo stesso Huston) e rivela i tanti punti di riferimento nell’auto-analisi di Welles e nell’intertestualità dei suoi riferimenti. Nel gioco degli specchi Huston/Hannaford è anche quell’egotico Welles dispotico regista che se non muore ucciso in un incidente stradale nel giorno del suo 70mo compleanno, firma comunque una lucida (in)volontaria premonizione della propria fine. Proprio prima della propria morte Hannaford/Huston va facendo i conti sulla propria esistenza umana e professionale e prova a raccontarla, riviverla e ripercorrerla in un film ricco di ingiustificate sequenze di sesso fatte di nudità integrali maschili e femminili, come anche in insistite riprese di stilizzata violenza. Non più nei modi dei piano-sequenza che hanno reso celebre Welles fin dal capolavoro “Quarto Potere”, ma attraverso un montaggio frenetico di un susseguirsi di scene brevissime e apparentemente antitetiche, realtà del caos e illusorio smarrimento di un senso. L’apoteosi celebrata nell’interminabile festa di compleanno di Hannaford/Huston diventa dunque emblema e bersaglio delle sue stesse iconoclastie. Distruggere tutto per tutto ricominciare “come i toreri, che erano suoi intimi amici, lasciava che le corna delle etichette passassero vicine al suo corpo, persino che si portassero via qualche pezzetto dei suoi vestiti, senza per questo scomporsi, né cedere terreno” (il critico Paolo Mereghetti ha focalizzato assai bene questo passaggio del dialogo).
Quando Welles nel trattare il tema omosessuale pone il parallelismo tra l’attore e il regista come quello tra l’uomo e Dio, lascia un’implicita lezione ai posteri e ci dice che l’importante è continuare a sperimentare sempre, a non mai esser paghi, a nascondere in forme non previste (anche nei modi volgari e popolari del giallo) le proprie rare certezze, a mettere in discussione a ogni film l’idea di Cinema e di “Fare cinema”.
Tendenza: 2/5 (G)
Voto: (ma se si potesse 10 elevato alla n)
Sandro Avanzo