IL FESTIVAL 2018RICONOSCIMENTO SPECIALE A GODARD PER «LE LIVRE D’IMAGE » CONTRO LA VIOLENZA
L’Italia conquista Cannes
Doppietta con il Canaro di Garrone e la sceneggiatura di Rohrwacher
Palma d’oro al dramma giapponese
Valerio Cappelli
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
CANNES L’Italia c’è e batte due colpi al festival. Marcello Fonte che Matteo Garrone ha pescato per Dogman mentre faceva il guardiano in un centro sociale, si offre col suo candore e la sua umiltà mentre Roberto Benigni gli dà la Palma per quel personaggio umiliato che diventa il torturatore del suo carnefice, mantenendo la sua umanità dolente: «Oddio, la prendo? Da piccolo quando ero a casa e pioveva, sopra le lamiere della baracca chiudevo gli occhi e sentivo gli applausi, ora li apro e quegli applausi siete voi, mi sento a casa e a mio agio». Alice Rohrwacher in ex aequo con Panahi vince come migliore sceneggiatrice di Lazzaro Felice, la sua favola contadina: «Ringrazio chi ha preso seriamente queste mie parole scritte, come i bambini prendono seriamente i giochi». La Palma d’oro al giapponese Hirokazu Kore-eda con Shoplifters, Gran premio della giuria a Spike Lee (BlacKkKlansman), alla sua quinta presenza il regista col dito puntato riceve il suo primo riconoscimento: «Lo dedico agli afro-americani di Brooklyn. Tutti mi chiedono cosa penso di Trump. Lo dico nel film».
Ma il premio «politicamente» più importante va a Nadine Labaki, (era dal ’91 che mancava un film libanese in gara), Gran Premio della Giuria con un film toccante per il pubblico, 15 minuti di applausi, su tutti i temi delle emergenze: miseria, adolescenti vendute, migrazione, solidarietà tra i poveri che è l’unica ad arrivare: «Un film deve divertire e far riflettere. Zain, il mio giovane attore deve poter andare a scuola. L’infanzia maltrattata è alla base dei mali del mondo, uniamoci per una soluzione. Dedico il premio anche al mio Paese, che malgrado i problemi combatte come può, e accoglie il più alto numero di rifugiati».
Prende il microfono Asia Argento (premia la migliore attrice, Samal Yeslyamova): «Nel 1997 sono stata violentata da Weinstein, faccio una predizione: non lavorerà più». La questione femminile e le sopraffazioni sono riassunte nella frase cult di Cold War di Pawel Pawlikowski (migliore regista su una coppia che si rincorre nella Polonia della guerra fredda), quando la protagonista svela molestie subite dal padre: «Mi ha preso per mia madre, così ho preso il coltello per fargli capire la differenza».
Chiude il Festival della presidente Cate Blanchett che ha trasformato Cannes in La città delle donne, cominciando dalla marcia delle 82 registe e attrici per la parità salariale ma non solo. Nella storia della manifestazione solo un quinto dei membri della giuria è stato donna; 12 le presidenti, la prima volta nel ’65 con Olivia de Havilland.
Dopo la cerimonia, in un’edizione dove le stelle hanno brillato per la loro assenza, c’è Sting (con Shaggy) che canta fuori del Palazzo. Nadine Labaki lo indica al suo Zain, il bambino profugo siriano senza documenti che ricorda il kid di Chaplin. Festival smemorato con due maestri del cinema italiano dai sorrisi timidi appena scomparsi, il poeta rigoroso Vittorio Taviani e Ermanno Olmi che quando passava davanti a un albero di mandorle in fiore si toglieva il cappello. Dimenticati a Cannes, dove trionfarono, e mai ricordati.
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La giuria ha evitato i tranelli emotivi
di Paolo Mereghetti
Due film italiani in concorso, due premi. Non poteva andar meglio (soprattutto se ci confrontiamo con i cugini francesi: quattro film e nessun premio. Paolo Conte avrebbe di che aggiornare i suoi versi su Bartali…). Ma il premio alla sceneggiatura per Alice Rohrwacher e quello al miglior attore per Marcello Fonte non sono solo motivo d’orgoglio nazionale, sono i segnali che un cinema fuori dagli schemi — né Lazzaro felice né Dogman sono opere scontate o prevedibili — può trovare la strada per una vera rinascita. In Italia e all’estero. Non aveva un compito facile quest’anno la giuria perché c’erano molti film di qualità, che il palmarès è riuscito a comprendere quasi in toto, ma anche molti film «falsamente belli», che puntavano soprattutto sull’emozione più facile e ricattatoria. E invece Cate Blanchett ha saputo evitare con la sua giuria le tante possibili trappole (Honoré, Gonzales, Hamaguchi, Mitchell, Husson, Shawky), arrivando a creare un inedito «premio speciale» per Jean-Luc Godard che non solo consacra un grande film di ricerca (Le livre d’image) ma testimonia di uno spirito di apertura verso il nuovo e il futuro che non sempre le giurie sanno dimostrare. Certo, il film della Labaki Capharnaüm cerca la commozione dello spettatore con un’insistenza sospetta, tanto che molti sull’onda dell’emotività erano pronti a giurare sulla Palma d’oro per il film libanese, ma aver preferito per i premi più importanti le opere di Kore-eda e di Spike Lee dimostra una indipendenza di giudizio che fa solo onore ai nove giurati. Perché entrambi i film, la Palma d’oro giapponese e il Gran Prix americano, sono la prova di un cinema che cerca di conciliare il percorso d’autore senza cedere ai ricatti di una facile popolarità (pur avendo presente la necessità di dialogare col pubblico) ma anche senza abdicare alla voglia di confrontarsi col mondo reale — in modi più muscolari Spike Lee, in forme più meditate Kore-eda —, entrambi però avendo chiari gli obiettivi cui puntare. Certo, alla fine di un palmarès resta sempre l’amaro per i bei film dimenticati, quest’anno le opere del russo Kirill Serebrennikov, del cinese Jia Zhang-ke, del francese Stephane Brisé, ma bisogna anche accettare il senso della gara e che i risultati non possano accontentare tutti. A rallegrarsi, comunque, sarà il direttore Thierry Frémaux che quest’anno ha apparecchiato un programma confuso e contradittorio, sostanzialmente sbagliando il calendario delle proiezioni (il film del turco Nuri Bilge Ceylan sparito dai resoconti critici) e litigando con mezza stampa e tutta Hollywood. I premi di un’ottima giuria sono riusciti a salvare anche la sua faccia.
da La Repubblica
Molta società e poco impegno La giuria evita criteri politici
EMILIANO MORREALE
CANNES
Poteva andare peggio: alla fine, la giuria del festival di Cannes ha evitato un Palmarès balordo. Alla vigilia veniva dato per favorito il libanese Capharnaüm di Nadine Labaki, uno dei film meno convincenti del concorso, perché esibiva temi di attualità ed era diretto da una donna. Invece la giuria presieduta da Cate Blanchett, la quale aveva subito annunciato di non volersi far condizionare da criteri politici, le ha assegnato “soltanto” il Prix de la Jury (in pratica, il terzo premio). E ha tenuto fuori altri titoli non riusciti, ma magari seducenti per chi si fosse lasciato prendere dal gusto dell’esotico o dell’impegno. La Palma d’oro a Shoplifters di Kore-Eda Hirozaku è un premio oggettivamente ineccepibile, anche se dispiace molto per Dogman, magari più potente e radicale.
Ma la malinconica classicità del film spiccava comunque tra i titoli in concorso: meditazione sulla famiglia e la società, il film non tira in ballo esplicitamente grandi temi di attualità o di denuncia e si è imposto solo per la propria finezza di racconto. Anche se non è un capolavoro, il vincitore del secondo premio, BlacKkKlansman di Spike Lee è veloce e divertente, tenuto su da due bravissimi attori (Adam Driver e John David Washington), e probabilmente la politica, con il collegamento esplicito che il film propone tra il Ku Klux Klan degli anni 70 e l’America di oggi, ha contato solo fino a un certo punto. Giusto il premio per la regia a Pawlikowski con Cold War (nei primi giorni dato per favorito) e alla sceneggiatura ex aequo per il film di Panahi, mentre è abbastanza strano quello all’attrice kazaka Samal Yeslyamova per Ayka, braccata per tutto il film dalla macchina da presa, ma dalla forza meno evidente di altre interpreti.
Per gli italiani ci si aspettava forse qualcosa di più, o di diverso. Ma del resto, a parte la Palma d’oro, gli altri premi poco avrebbero aggiunto al loro curriculum (entrambi hanno già vinto il secondo premio, Garrone addirittura due volte). Il premio alla sceneggiatura di Lazzaro felice è curioso, perché non è quello il punto di forza del film, che respira in altro modo, e quello a Marcello Fonte come miglior attore è inscindibilmente legato al film nel suo complesso: come abbiamo scritto all’indomani della proiezione, Fonte è Dogman, e viceversa.
I due film sono stati comunque segnalati giustamente all’attenzione, e i riscontri critici della stampa, anche internazionale, sono eccellenti.
A seconda degli anni, si dà per morto o trionfante il nostro cinema, ma ormai è indubbio che possiede una spina dorsale di autori solidi e riconosciuti, a fronte di una situazione poco rosea per quel che riguarda la sua vita nelle sale. Forse anche questi riconoscimenti di Cannes potranno servire, se non altro, a far rinascere la curiosità e l’affezione per un certo cinema italiano.