CANNES 2018 IN «BLACKKKLANSMAN» LA STORIA VERA DI UN AFROAMERICANO INFILTRATO TRA GLI ESTREMISTI
Spike Lee e il Ku Klux Klan
di Paolo Mereghetti
Applausi e tante risate per il film antirazzista
Il regista ritrova la verve dei suoi successi
Si dice che i festival non amino ridere. Ieri Cannes, proiettando BlacKkKlansman (L’uomo di colore del Klan) di Spike Lee, ha smentito questa leggenda, scatenando applausi e molte sonore risate. Anche se il film non si può certo definire una commedia, visto che racconta la storia vera di un’operazione sotto copertura con cui un agente di Colorado Spring riuscì nel 1978 a infiltrarsi nella locale sezione del Ku Klux Klan. Con un piccolo particolare che non va dimenticato: l’agente era di colore!
Tutto nasce da una telefonata che fa il neo poliziotto Ron Stallworth (John David Washington, figlio di Denzel e già giocatore professionista nella National Football League), incuriosito da un annuncio pubblicitario del Klan sul giornale locale. Sciorinando tutto il possibile campionario di odi razziali, Ron convince la persona dall’altra parte del filo che potrebbe essere un buon membro del KKK. I problemi nascono quando dopo i primi contatti gli propongono un incontro: non può evidentemente presentarsi di persona e così convince il collega Flip Zimmerman (Adam Driver) a spacciarsi per Ron (perché ha avuto anche la sbadataggine di dare il suo vero nome).
Inizia così un gioco degli equivoci con un Ron nero che parla e discute al telefono e un Ron bianco che partecipa alle riunioni (dove tra l’altro deve fare i conti anche con l’odio per gli ebrei, come lui è), orchestrato da uno Spike Lee in grandissima forma.
E la storia gli permette anche di far propaganda alle idee sul «potere nero» attraverso Patricia (Laura Harrier), leader degli studenti di colore di cui Ron (quello nero) si innamora, costretto all’inizio a una corte «sotto copertura» visto che la ragazza non vede di buon occhio i poliziotti. Senza dimenticare di prendere violentemente per i fondelli i bianchi del Klan, i cui membri sono un campionario di esaltati o di mentecatti.
Servito da una sceneggiatura spigliata e divertente (cui ha collaborato anche il regista), Spike Lee ritrova la verve dei suoi film più celebri, dove l’impegno politico si mescola alla voglia di giocare con dosi massicce di ironia. Durante l’irresistibile scena in cui il Ron bianco riceve l’affiliazione ufficiale, Lee si toglie qualche sassolino dalle scarpe, sottolineando lo spirito razzista che anima il film di Griffith La nascita di una nazione, che i membri del Klan esaltano mentre — nel più tradizionale montaggio alternato, messo a punto proprio da Griffith — è attaccato dagli studenti neri venuti ad ascoltare un oratore interpretato da Harry Belafonte. Per continuare con l’esaltazione del primato americano e l’inconfondibile slogan «America first» che il regista fa più volte ripetere dai membri del Ku Klux Klan, tanto perché non ci possano essere dubbi sulle origini del pensiero politico di Trump.
Così non è dato sapere se la polizia di Colorado Spring fosse davvero favorevole all’integrazione, ma lo spirito collaborativo e goliardico che sembra animarla serve per ritagliare qualche ulteriore momento divertente (le telefonate collettive al capo del KKK, il trabocchetto fatto al superiore razzista, l’inevitabile battuta sul fatto che mai un nero potesse aspirare alla Casa Bianca).
Il cinema di Spike Lee non va mai troppo per il sottile né si vergogna di essere manicheo, ma lo fa all’interno di uno schema che non nasconde la sua partigianeria e mette da subito le carte in tavola. Per poi ricordare nel finale che nonostante l’esito positivo di quell’operazione, il razzismo non è certo estirpato. Come ricordano le immagini degli scontri di Charlottesville nell’estate del 2017 e la bandiera a stelle e strisce capovolta.
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La famiglia di Kore-eda in corsa per la Palma
P. Me.
Non è la prima volta che il regista giapponese Hirokazu Kore-eda parla della famiglia, del rapporto tra genitori e figli, della supremazia dell’amore sul sangue, della complicità fra adolescenti, ma mai con la grazia, la delicatezza e la forza emotiva di questo Manbiki kazoku, che i francesi traducono come Un affare di famiglia, tra i più accreditati pretendenti alla Palma. All’inizio del film (che il regista ha scritto e montato da solo) facciamo la conoscenza della famiglia Shibata: un padre che lavora saltuariamente in un’impresa di costruzioni e però insegna al figlio Shota i trucchi per rubare nei supermercati, una madre che fa la stiratrice, una nonna che contribuisce al magro bilancio familiare con la sua pensione e una nipote che lavora in un peep-show piuttosto castigato. Quando una sera d’inverno l’uomo vede la piccola Juri malconcia su un balcone, se la porta a casa per rifocillarla e poi, scoperto che i genitori la picchiano, decide di tenerla con sé («non è un rapimento — si giustifica — perché non chiedo nessun riscatto»). Evidentemente c’è qualcosa di strano in quella «famiglia» ma per la prima parte del film Kore-eda sembra disinteressarsene per sottolineare soprattutto il calore e l’affetto che, nonostante le ristrettezze economiche, cementa la loro unione. Fino a che un banale incidente fa venire a galla la verità. Ma anche di fronte a rivelazioni che potrebbero sconvolgere (c’è un delitto nel passato della coppia), il regista non sceglie mai la strada del sensazionalismo ma affida a una macchina da presa spesso immobile il compito di registrare i vari tasselli con cui ricostruire la realtà e arrivare alla verità. Il metodo ricorda quello del miglior Farhadi ma con una più evidente capacità di spiegare il contesto sociale in cui quelle storie possono accadere. Riuscendo così a far conoscere tutt’altra faccia del Giappone, quella dove situazioni al limite del paradosso sono all’ordine del giorno, dove la solitudine nasconde il dramma e la capacità di dare affetto si rivela merce rara e preziosa. Senza mai abdicare alla forza dell’emozione.