L’allievo molestato “Il mio mentore Levine mi ha rovinato la vita e avevo solo 16 anni”
ANNA LOMBARDI
NEW YORK
Diceva che dovevo imparare a lasciarmi andare: era parte della mia educazione.
Avevo 16 anni e volevo diventare direttore d’orchestra come lui. Invece quella relazione malsana mi ha allontanato dalla musica». Ashok Pai, 49 anni, è uno dei quattro uomini che sull’onda del caso Weinstein lo scorso dicembre hanno raccontato di aver subito, ancora minorenni, abusi sessuali da parte di James Levine: il direttore d’orchestra alla guida del Metropolitan Opera di New York dal 1976. La storia rilanciata dal New York Times ha spinto il Met, che pure era a conoscenza di una denuncia fatta da Pai nel 2016, ad aprire l’investigazione interna che il 12 marzo ha portato al licenziamento dell’artista. I “rumors” sulle sue attitudini sessuali sono state confermate dopo aver sentito almeno 70 persone. Un atto che Levine, 74 anni, 37 Grammy, non ha accettato: chiedendo 5,8 milioni di dollari di danni al Met per aver rotto il suo contratto alla vigilia dell’attesissima Tosca.
Pai, quando conobbe Levine?
«Era il 1973, avevo 4 anni: mia madre mi portò nel backstage del festival di Ravinia, sede estiva della Chicago Symphony Orchestra, per salutarlo. I miei genitori indiani erano laici e consideravano la musica classica la loro unica religione. Avevo appena iniziato le lezioni di violino e per me fu come incontrare un supereroe.
Da allora andai ogni estate nel backstage».
Pai si presenta all’appuntamento con Repubblica al Jungle Cafè di Brooklyn con foto dell’epoca, appunti e perfino l’audio dell’ultima telefonata con Levine registrata nel cellulare: «Mangerò molto durante la nostra conversazione» dice. «È una delle mie nevrosi, quella relazione mi ha lasciato un lungo strascico di dipendenze».
Come divenne una relazione?
«A 16 anni mi trovai a frequentare un uomo di 41 senza neanche rendermene conto. Una sera, era il giugno 1985, mi accompagnò a casa. Per la prima volta mi toccò in modo imbarazzante, sensuale. Intanto diceva che mi avrebbe aiutato a diventare “speciale” come lui».
Perché continuò a frequentarlo?
«Non mi eccitava. Sono eterosessuale, non l’ho mai desiderato. Ma mi diceva che dovevo andare a New York per fare un’audizione. L’idea mi emozionava».
Andò?
«Sì: avevo 16 anni. I miei mi accompagnarono fino al suo appartamento nell’Upper West Side ma lui non li volle in casa. Mi accolse in accappatoio: facemmo una sorta di test musicale e alla fine disse che non avevo la stoffa del grande conduttore ma che lui poteva aiutarmi. Fece grandi promesse: avrebbe creato una fondazione per me. Sarei andato al Festival di Salisburgo. E tutto quello che accadeva, beh, era parte della mia educazione».
Ne parlò con qualcuno?
«Mai. Ma il fratello e l’assistente di Levine sapevano. Avevano una sorta di copione: mi invitava ai concerti dicendo che poi saremmo andati a cena per parlare. Ma succedeva sempre qualcosa. Mi mandava ad aspettarlo a casa o in hotel. E le molestie ricominciavano».
Era consenziente?
«Ero un ragazzino confuso. Tutti erano abbagliati da lui: i miei genitori, gli insegnanti, gli amici.
Nessuno mi protesse. E l’unico a trarne piacere era lui».
Com’è possibile: una relazione durata quasi 20 anni…
«So che è difficile capirlo: la sua amicizia mi lusingava, lo consideravo il mio mentore. Gli raccontavo tutto. Quando a 18 anni gli dissi che avevo perso la verginità con una ragazza mi convinse a lasciarla. “So cosa è bene per te”.
Avevo un qualche sentimento per lui. Ma cominciai a bere prima dei nostri incontri. Dopo ho capito: mi aveva reso dipendente».
Da cosa?
«La psicanalisi lo chiama “Betrayal Bond”: una forma di legame malato basato su promesse mancate.
Andava sempre allo stesso modo.
Molestie, rabbia, promesse.
Qualcosa mantenne: scrisse le lettere per l’ammissione al college.
Mi diede del denaro. Non più di 50 mila dollari in 20 anni».
Come ne venne fuori?
«Capii che ero per lui solo un oggetto sessuale. Ma se cercavo di allontanarmi mi sentivo in colpa. Mi ha aiutato uno psicologo buddista, facendomi capire che ero una vittima».
Ne parlò con Levine?
«Sì. Disse mi dispiace, ma poi ci provò ancora. Capii che non dovevo più vederlo, era il 2006».
Lo ha denunciato solo nel 2016: dieci anni dopo.
«Avevo tentato di parlare con la stampa: al New Yorker mi trattarono da millantatore. Mi rivolsi al Cd’a del Met. Dissero che se le cose stavano come dicevo dovevo andare alla polizia».
Cosa accadde?
«Indagarono: ma nel 1986 in Illinois l’età minima per un rapporto consensuale era 16 anni. Ora la legge è cambiata ma allora Levine non era perseguibile».
Sapeva di altre vittime?
«Lo capii una volta, dopo una strana telefonata. Ma fino all’articolo del
New York Times credetti di essere l’unico».
Per un uomo è più difficile denunciare?
«Solo dopo Weinstein l’atmosfera è cambiata. Ho scoperto che le voci sui comportamenti di Levine risalgono alla fine degli anni 60, ma il suo status lo ha sempre protetto».
I suoi genitori come hanno reagito alla sua denuncia?
«Mio padre è morto senza sapere.
Mia madre ha molti rimorsi».
Cosa direbbe ai ragazzi che hanno vissuto storie simili?
«Che conosco la loro furiosa vergogna. E che non sono più soli».
Levine è stato licenziato. Era quello che voleva?
«Sono una persona spezzata che cerca di curarsi. Ma Levine rifiuta di vedere che mostro è stato, al punto da chiedere milioni di danni. Si nasconde dietro l’idea del nostro consenso, anche se io e gli altri eravamo solo ragazzini. Dovrebbe affrontarci: e farsi curare lui».
Volevo diventare direttore come lui ma quella relazione malsana mi ha allontanato dalla musica
Sono eterosessuale e non l’ho mai desiderato. Diceva che a New York avrei fatto un’audizione.
Ero emozionato