Milano – Per Alberto Moravia, era il miglior film tratto da un suo romanzo. E per Bernardo Bertolucci, appena ventinovenne, fu il primo successo internazionale. Nel 1970 «Il conformista» fu la rivelazione di un regista capace di fondere cinefilia, grande spettacolo e analisi sociale. Da allora non si è rivisto spesso, per questioni di diritti. Finalmente, quest’anno, è stato restaurato in digitale 2K: e dopo la presentazione a Cannes, arriva all’Anteo.
Il romanzo, nel 1951, venne accolto gelidamente: in epoca di impegno, Moravia elesse a protagonista un uomo che, nel disperato tentativo di essere uguale agli altri, collabora con la polizia segreta fascista, e diventa complice dell’omicidio di un oppositore che vive a Parigi. Era evidente il riferimento all’assassinio dei fratelli Rosselli nel 1937, che di Moravia erano anche cugini. Diciannove anni dopo, le polemiche politiche si erano sopite: e Bertolucci scavò nella psiche di un antieroe interpretato con stupefacente adesione da Jean-Louis Trintignant. Il borghese frustrato che aspira a integrarsi non solo è un omosessuale represso, ma l’ultimo rappresentante di una borghesia decadente, destinata a essere spazzata via dalla Storia.
Detto così, sembra che ci sia poco da stare allegri. Ma «Il conformista» è un film che trabocca di vitalità, a partire dal personaggio della moglie borghese interpretato da Stefania Sandrelli. È il sogno realizzato di un regista cresciuto con Renoir e i classici hollywoodiani, che muove la macchina da presa vorticosamente, con un’invenzione in ogni inquadratura. E che da allora considera il cinema come una liberatoria seduta di autoanalisi. «Quando guardi nell’obiettivo della macchina da presa», ha detto, «sei come un voyeur, un bambino che spia i genitori in camera da letto. Forse il motivo per cui amo fare cinema è ripetere quel momento infantile. Non ricordo se l’ho fatto davvero; forse non l’ho mai fatto da piccolo, ma voglio farlo adesso».
«Il conformista» deve molto anche al direttore della fotografia Vittorio Storaro: le luci del film, così contrastate, all’epoca erano percepite come insolite, se non addirittura come «sbagliate». Ma Storaro era forte di un modello illustre, e allora non inflazionato: la «Vocazione di San Matteo» di Caravaggio. La chiarezza della coscienza e l’oscurità dell’inconscio lottano nella stessa immagine.
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