Dalla rassegna stampa Cinema

Niente sesso, più Internet il cinema cerca pubblico

Oggi si dà il via a quattro tipi di film: remake, sequel, adattamenti da serie tv e giochi

Le parole d´ordine: merchandising e product placement Ma spesso portano ad aberrazioni
In un libro i conti in rosso dell´ultimo decennio. Di fronte a produzioni sempre più costose e a divi esosi, continua a calare il numero di spettatori che vede i film in sala. Così le major corrono ai ripari

NEW YORK – Pochi mesi fa, un giovane produttore hollywoodiano portò una sceneggiatura alla Paramount. Si trattava di un progetto innovativo, avvincente e con dialoghi brillanti. Era riuscito a convincere due star di prim´ordine a partecipare al film, e si era assicurato un regista “bankable”, cioè con un record impeccabile di pellicole di successo. Pochi giorni dopo, il produttore venne convocato dall´amministratore delegato della Paramount, che gli fece i complimenti e disse: «È un´idea straordinaria, peccato che non sia già stato fatto il film o non sia possibile farne il remake». Il produttore rimase sconcertato, ma chi conosce Hollywood sa che non si tratta di una risposta sorprendente: gli studios oggi tendono a dare il via libera a quattro tipi di film: i remake, i sequel, gli adattamenti di serie tv o di videogiochi. Questa vicenda è fondamentale nel racconto di Edward Jay Epstein in The Hollywood Economist, il libro che consente di capire cosa conti realmente a Hollywood, e quali siano le regole che governano la fabbrica dei sogni.
Epstein parte da alcuni dati insindacabili: nel 2007 gli incassi complessivi degli studios hanno raggiunto un totale di 42.3 miliardi di dollari, ma solo un decimo di quella somma è provenuta dai biglietti venduti al cinema. Tutto il resto viene dal “backend”: vendite dei dvd o via Internet, merchandising, distribuzione nel mercato internazionale, pay tv e antenne televisive. Oggi nessun film potrebbe sopravvivere commercialmente con la sola distribuzione in sala, e l´unico effettivo valore di questo primo passaggio è quello di garantire una buona fama al film, e aspirare a vincere la battaglia per il primo weekend, il cui premio è poter scrivere nei flani pubblicitari “il film n° 1 del momento”.
Queste cifre si incrociano con un altro dato: nel 1929, anno del primo Oscar, 95 milioni di americani andavano al cinema almeno una volta alla settimana, con una percentuale di quattro quinti della popolazione. Oggi la quota è inferiore al dieci per cento. Thomas Stephenson, uno dei più importanti esercenti americani, spiega che dei 50 milioni di dollari che guadagna annualmente, solo 23 finiscono nelle sue tasche, a fronte di 31.2 milioni di spese vive. Il bilancio sarebbe in perdita se non fosse per la vendita degli snack in sala. Gli incassi del cibo si sono stabilizzati intorno ai 26.7 milioni, ed ovviamente ciò obbliga a scelte di film mirati sugli adolescenti e pubblicità sinergiche tra le pellicole e il cibo offerto. Una delle battute più illuminanti del libro è “il vero segreto è nel sale”, pronunciata senza ironia da Stephenson, il quale spiega come abbia incrementato gli incassi delle sale cinematografiche, e quindi dei film, aumentando la quantità di sale negli snack.
Nei 25 film di maggiore incasso a partire dal 2000, il sesso è inesistente o molto blando: è questo il motivo per cui oggi è considerato un rischio e non un potenziale arricchimento. A ciò deve aggiungersi il cosiddetto fattore Wal-Mart: gran parte delle vendite dei dvd avviene nelle catene di supermercati Wal-Mart, dove il cliente tipo è una donna conservatrice di mezza età che giudica severamente chi fa commercio di sesso esplicito. Per quanto riguarda i costi di produzione, un elemento fondamentale è l´assicurazione: sono numerosi i film entrati in crisi prima ancora delle riprese. Famoso il caso di Nicole Kidman, che rischiò di far fallire la propria assicurazione dopo una lesione al ginocchio all´epoca di Moulin Rouge.
Lunghe e inquietanti le descrizioni delle invenzioni contabili messe in atto dagli studios per aggirare il fisco ed evitare di pagare i “talents” con il compenso a percentuale sui guadagni del film. Il più scaltro e temuto negoziatore di Hollywood è Arnold Schwarzenegger, il quale, consapevole di essere indispensabile sul set di Terminator 3, ha imposto un contratto di 33 pagine che garantiva, oltre a un compenso faraonico, la propria parte di guadagno prima di ogni altro, compresi i produttori. Il merchandising ed il product placement hanno portato ad aberrazioni non solo artistiche: in Natural Born Killers il produttore aveva stretto un accordo in base al quale avrebbe regalato due paia di stivali “Abilene” a Oliver Stone e ad altri membri della troupe se un camion con l´effigie del marchio fosse passato in una scena. Ma la sequenza prescelta era complessa e comportò molte ore di ritardo, per una spesa di 300 mila dollari.
È solo uno dei tanti passaggi sconcertanti di questo libro godibilissimo e illuminante, in cui Epstein continua a ribadire: Hollywood è il luogo dove si celebra l´arte degli affari, non l´arte del cinema.


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