PARIGI— «Abiterò al Louvre. A Milano, invece, non tornerò più… fino al 2011». Patrice Chéreau da giugno avrà per sé una sala del museo parigino. L’abiterà con una mostra sulle sue regie di teatro, cinema e lirica; film suoi e di altri a lui cari come Bergman; un reading di Rêve d’automne di Jon Fosse e un récital wagneriano di Waltraud Meier, favolosa Isotta nel Tristano scaligero firmato con Barenboim.
Il pavimento del grande appartamento dove il regista di Gabrielle e Intimacy abita, al Marais, è costellato di figure di dipinti: si fa lo slalom tra le sedie; sul tavolo, il modellino della mostra. «Al Louvre ci sarà la scena del dramma di Fosse che debutta qui al Théâtre de la Ville e in aprile al “Piccolo” di Milano coproduttore dello spettacolo».
Un «vecchio» amore il Piccolo, tornerebbe a lavorarci? «No, già fatto. Anni ’70, con Paolo Grassi, non con Strehler che ammiravo pazzamente ma che se n’era andato: forse entrò una volta in platea durante le mie prove, e sentii subito sbattere la porta di velluto… A Grassi invece proposi dei titoli che lui sostituì tutti: il più grande direttore di teatro era un tiranno». Ma il Piccolo ha continuato a funzionare. «Una macchina perfetta, ho imparato tutto dai suoi tecnici. Funziona ancora benissimo, certo ospita come una vetrina teatro da tutto il mondo. Coprodurre invece è una scelta. Purtroppo saremo nella sala grande, assai poco graziosa. Se penso che Strehler attese per una vita quello spazio e ci entrò il giorno dei suoi funerali, prima di esser portato a Trieste. Assurdo. Come quel vicolo intitolato a Visconti, lì vicino». Milano, lei pare non amarla, la città del Piccolo e della Scala… «La Scala offre vantaggi: il miglior sovrintendente, Lissner; e un’orchestra eccezionale, forse un po’ antipatica. È una minoranza che mette a rischio le prime, mi auguro di tener lontano il 7 dicembre per un po’, anche se quella data è scaramantica, salta… lo sciopero».
Chéreau è abituato a giocare su tre tavoli, da almeno 30 anni, e a vincere. «Preparo un film, ma per ora farò teatro. A Sogno d’autunno aggiungerò un altro testo di Fosse, con due attori soltanto». Non si dedicava a mettere in scena parole dal periodo della «passione» per Koltés di cui è stato il rivelatore e che ha anche recitato, con quella prima della Solitudine a Venezia in un uragano d’acqua. «Vero. Poi mi sono limitato a interpretare pezzi di Dostoevskij. Devo cambiare sempre, detesto ripetermi, fare le stesse cose. Ho bisogno di sorprese. Le prove di uno spettacolo lo sono. Io non so come metterò in scena questa storia, lo decideremo assieme, con gli attori, come con Dominique Blanc per La douleur. E così faccio con i cantanti, nessuna differenza. Non si tratta di indicare gesti — “muoviti così, vai lì” — quelli verranno naturalmente; ma di far sì che ognuno trovi la propria musica, intima, anche se non deve cantare, ma dire parole. Che hanno comunque una musica. Nel quotidiano non la sentiamo. Non la sentiamo più».
Ci sono «innamoramenti» per certi autori nella carriera di Chéreau, così come nelle stagioni di un teatro. Al Piccolo Teatro, guidato da Escobar e Ronconi, dopo il francese Lagarce, l’appuntamento è ora con l’autore norvegese (in Italia già affrontato da Valerio Binasco, ndr.). Nel testo scelto da Chéreau, Sogno d’autunno, titolo bergmaniano, protagonisti sono un uomo e una donna che si incontrano o si re-incontrano, si amano o sono innamorati da sempre… «Càpita, no, quando si ama: si ha la sensazione di aver già vissuto insieme, di conoscersi da tanto tempo», precisa Chéreau con dolcezza ed esprit de géométrie, «qui però ci sono salti di anni, figurano persone che poi scompaiono».
Alcuni personaggi sanno tutto, altri sembrano non capire nulla; alla fine, da una battuta, apprendiamo che il protagonista, l’Homme, è morto. C’è qualcosa in comune, ovviamente in un vuoto storico, con Tristan e Isolde? Forse manca solo la musica per farne un’opera. «Non ci ho pensato. Ma ci sarà della musica. Abbiamo letto il testo assieme agli attori, ho aggiunto due personaggi “fantasma”. Presto proverò con i protagonisti, Pascal Greggory e Valeria Bruni Tedeschi». Ha scelto questa attrice già brava e nota, ma ora di richiamo sicuro… «Valeria è stata mia allieva, vent’anni fa. Abbiamo già lavorato assieme, la sua prima prova di teatro non è andata bene, la seconda meglio, la terza…». Gli attori italiani? «Con Virna Lisi mi sono trovato bene. Sul set, però. Non mi piacciono i nuovi attori, in scena vogliono essere “intensi”, troppo. E parlano una lingua artificiosa. La vera sarebbe il napoletano, il veneziano… Tra i vostri autori? Potrebbe interessarmi Goldoni, ma guai, è intoccabile. Mi rivolgo sempre più alle drammaturgie del Nord. Anche per la lirica, per i compositori. Stia certa: Verdi non lo farò mai».