Mura grigie, lampade al neon, qualche branda. Detenuti pronti a scannarsi l’un l’altro, ciascuno con la sua storia di sangue e dolore raggrumata dentro come compagnia, unico racconto da ripetere ossessivamente. Duro, sconvolgente, a tratti insostenibile per emozione, questo allestimento di Da una casa dei morti, l’opera di Leos Janácek tratta dai diari di prigionia di Dostoevskij. Scritta dal compositore ceco poco prima di morire, nel 1928, con i gulag staliniani all’orizzonte, è arrivata alla Scala nell’edizione già leggendaria di Patrice Chéreau. Sul podio il finlandese Esa-Pekka Salonen, al suo debutto lirico scaligero. Ed è stato trionfo, quasi 10 minuti di applausi e ovazioni per il regista e il direttore, per lo scenografo Richard Peduzzi, la costumista Caroline De Vivaise e tutta la compagnia di canto.
Chéreau torna così al Piermarini dopo il bellissimo Tristan und Isolde del 2007 con Barenboim sul podio. E nel 2007 nasce anche questa messa in scena di Janácek, coprodotta dalla Scala con Vienna (dove esordì con Boulez), Amsterdam, Aix-en-Provence e New York, direttore lo stesso Salonen. Spettacolo collaudatissimo eppure sempre in divenire. Ogni volta, per innescare quella tensione capace di arrivare allo spasimo, Chéreau mette a punto ogni più piccolo gesto con la compagnia, in gran parte sempre la stessa. Stavolta però nel ruolo di Gorjancikov, l’intellettuale finito in ceppi per ragioni politiche che adombra lo stesso Dostoevskij, troviamo il baritono Willard White, giamaicano, che con la sua pelle scura conferisce al personaggio del perseguitato politico una valenza più attuale.
Così come quel bagno penale si trasforma nelle successive incarnazioni di ferocia del potere: gulag staliniani, lager nazisti, prigioni di massima sicurezza, campi profughi. Tutta l’inumanità del secolo scorso, e anche di questo. La prima regola è sempre la stessa: spogliare l’uomo di tutto, dalla dignità all’identità. Cancellare il pudore. La scena in cui i prigionieri appaiono nudi o in mutande diventa il segno di un’immobile tragedia che corrode anche le menti. Gesti reiterati, ossessivi, che evocano quelli degli ospedali psichiatrici.
Nel secondo tempo i detenuti si esibiscono in uno spettacolino: due pantomime, Don Giovanni assediato dalle donne e la Bella Mugnaia di facili costumi. Ma in quel mondo «a parte», i ruoli femminili vengono interpretati da maschi. Una vestina rosa su un corpo ruvido, tatuato, il cranio rasato, basta a far immaginare la femmina così desiderata. La sessualità repressa scatena fantasie e allusioni a rapporti di ogni tipo, orali e sodomitici compresi.
L’immaginazione trasforma la realtà, il teatro nel teatro diventa la vita vera. L’unica fuga possibile per quei criminali, così simili all’aquila ferita di cui si prendono cura, e che Chéreau evoca crudelmente con un uccello di legno. Quando alla fine l’intellettuale è rilasciato, i compagni lo salutano con una danza «magica», capace di far volare l’aquila. Ma è l’illusione di un istante.