PARIGI
Ha vinto Gianfranco Rosi, il suo Below Sea Level è stato un colpo di fulmine per il pubblico parigino del Cinéma du Réel, il festival del documentario che si è chiuso domenica. Overbooking già dal mattino presto alle repliche dei film premiati, e discussione dopo la proiezione appassionata e lunghissima come è stato a ogni incontro. Quello di Rosi è un film indipendente, girato senza film commission né fondi ministeriali e nemmeno le «intuizioni» di produttori che pensano alla messa in onda televisiva o alla necessità di un format «da distribuzione» prima ancora che il film venga realizzato. Forse anche per questo funziona, affascina la sua libertà e la grazia del racconto, colpisce il senso visivo, i personaggi e le storie conquistano pubblici internazionali diversi (ha vinto anche al festival di Praga) arrivando a età diverse – infatti a Parigi ha avuto la menzione della giuria dei giovani. E chissà che non capiscano anche qui, che non ci sia qualche distributore disposto a farlo uscire credendoci e non per buttarlo un fine settimana in una sala facendolo poi sparire nel nulla come spesso si fa.
I giurati di Cinéma du Réel, Luciano Barisone, Maryline Watelat, Charlotte Garson, Cesar Paes, hanno poi menzionato Los Herederos di Eugenio Polgovsky, il premio Joris Ivens è andato a J.P.Sniadecki per Demolition, quello dei cortometraggi a Over Jorden, under Himlen di Simon Lereng Willmont, e quello della Scam, la società degli autori, a Robisons of Mantsinsar di Victor Asliuk.
L’atmosfera del festival era piacevole, molto pubblico, forse meno ricerca progettuale anche se la sezione curata da Nicole Brenez ci ha mostrato dei film belli e dissacranti. L’idea di Exploring Documentary, questo il titolo, era proporre quei registi che lavorano col super8 o il sedici, insomma con supporti «fuori mercato» innestandoli nella tecnologia digitale. Una scelta che è prima di tutto dichiarazione di intenti, ovvero della volontà di non piegarsi alle regole produttive attuali con tutto ciò che queste comportano in termini di costruzione narrativa, visuale, del lavoro sul tempo e sulla durata. Diciamo che la resistenza all’obbligo del digitale imposto dall’industria, anche se indubbiamente aiuta, permette di girare a costi minori e a lungo (un film come quello di Rosi non sarebbe stato possibile coi costi della pellicola), passa per l’utilizzo di supporti «antichi». Se vogliamo è proprio questo recupero il primo gesto di rivolta, vista appunto la sparizione ormai quasi totale dai mercati industriali di super 8 o 16 mm. In Italia c’è Roberto Nanni che lavora col super8 e sull’ibridazione delle tecnologie (video, 16 mm, Betacam ecc) all’interno di uno stesso film. Cosa che stabilisce la sua cifra poetica e al tempo stesso una «forma cinema» (o un fare cinema) sul confine, impastato coi suoni, la musica, il ritmo interiore dell’occhio e dell’immagine avvolgenti come un film d’avventura. E anche la realtà che osservano per scomporla – rivedevo di recente l’intervista a Derek Jarman che Roberto Nanni aveva realizzato nel 1993, uno dei suoi film più belli, L’amore vincitore – ci restituisce in modo non banale o semplicemente canonico il senso di intuizioni o di incontri. Quell’intervista, il modo in cui vediamo appena, mostrato in frammenti (intuizioni?) il viso, le mani, i colori dei quadri che Jarman dipingeva ascoltando invece la voce, ci immergono nel mondo artistico del regista,lo trasportano sullo schermo nella sostanza intima prima ancora che negli estratti dei film (infatti non ci sono).
C’era tra gli altri in Exploring Documentary il programma dedicato a Robert Fenz, artista che lavora tra ritmo, free jazz e architetture di Oscar Niemeyer. Il gesto di documentare la realtà predilige la grana dell’immagine, è epifania e al tempo stesso storia. Rivolta politica e sensualità musicale si fondono in una miscela spiazzante, esplorano Cuba e L’Avana, la memoria di Che e il presente, il silenzio dei volti che scorrono davanti alla macchina da presa, e la vita vissuta che affiora soltanto fuggendo a ogni tentativo di classificazione (Meditation on Revolution Part I: Lonely Planet). Il Messico rivoluzionario tra passato e presente, in bianco e nero e in un silenzio che dissolve qualsiasi riferimento temporale in Meditations on Revolution Part III: Soledad guarda alla tradizione rivoluzionaria nella storia messicana.
Lionel Soukaz filma in super8, in video, in 16 mm la sua vita, i suoi combattimenti personali, le passioni, il conflitto violento tra oppressione del corpo e liberazione dei sensi, gli eccessi, l’intensità (nel magnifico Journal annales di cui si sono visti degli estratti scelti dallo stesso Soukaz).
Anche Sylvain George mischia nel suo cinema supporti differenti, video e super8. In questo L’impossible, lavoro in progress presentato nella sezione, continua questa sua indagine sull’immigrazione nel nostro contemporaneo. Il modo di filmarla distorce la rappresentazione mediatica, ne rovescia il paradigma liberando la condizione emozionale dei soggetti, non semplici dati statistici ma persone che soffrono: rabbia, violenza, disperazione che ribollono nelle strade di Calais. È su questo confine in fuga, dove vivono clandestini migliaia di migranti, che il regista sta lavorando da alcuni anni: vediamo volti di ragazzi, occhi fissi, ardenti, Da lontano qualcuno si lava come può alla fontanella, altri sono all’erta per fuggire la caccia brutale della polizia. « Lo sanno tutti», grida un ragazzo. Parole che sono il sentimento di una rivolta, che accendono quel mare, quel paesaggio desolato, è un ragazzo «impossibile» che nessuno può fermare. É la storia di una ribellione L’impossible, o forse il desiderio che accada contro lo stato del presente, contro le litanie che ripetono la minaccia dei migranti, colpevoli della nostra crisi economica. della disoccupazione. Ma anche contro un certo modo di raccontarli delle immagini, del cinema. Max Roach e Rimbaud: cosa vuol dire oggi essere rivoluzionari, cosa è l’impossibile in una scelta antagonista? Cosa sono quelle immagini che ci portano in un inferno nella civilissima Europa, e che nessuno vuole mostrare perché producono spaesamento nelle nostre convinzioni. Vediamo i migranti, e quel ragazzo nero venuto da lontano, che vuole combattere le regole del presente. L’impossible è un film che commuove, forte, duro, lavoro sul cinema e sulla realtà. E un frammento in cui si liberano prospettive inedite (anche del cinema politico) e orizzonti invisibili. Siamo lì, siamo nel nostro mondo anche se sembra alieno. A dodici anni dalla sua morte, il musicista nigeriano Fela Anikulapo Kuti è più di prima un’icona dell’Africa combattente che ritiene di potercela fare con le proprie forze e la propria cultura, dell’Africa arrabbiata contro l’ingiustizia, la corruzione, l’arroganza del potere, la violenza culturale che si fa strutturale e poi fisica, e anche contro i governi e le economie del nord del mondo, quell’Europa e quell’America che creano, mantengono e approfittano delle disastrose condizioni dell’Africa per la sola logica del profitto. Ma non è mai stato contro i popoli del nord del mondo, che lo hanno sostenuto e continuano ad amarlo. E’ il simbolo di chi ritiene inaccettabile la sofferenza inutile della sua gente e che ha il coraggio di denunciarne i responsabili, pagando di persona un prezzo salato, inciso in decine di cicatrici nella carne, i segni dei bastoni della polizia e dei coltelli dei militari.
Sulla schiena del giovane Oluwaseun Kuti, per tutti semplicemente Seun, è tatuato «Fela Lives». L’ultimo figlio di Fela, oggi ventisettenne, è il vero erede dell’impero musicale del Black President. È nella sua musica che l’afrobeat ritrova un interprete magistrale, capace di veicolare tutto lo struggimento interiore caro proprio a quelle estenuanti maratone ritmiche. E’ la sensazione trasmessa dall’ascolto del suo atteso primo album, Many Things, prodotto dall’indipendente Tòt Ou Tard e uscito a fine aprile, album che presenterà nella tournèe italiana che toccherà le città di Firenze (19 marzo, Auditorium Flog), Milano (20, Teatro Dal Verme) e Torino (21, Hiroshima Mon Amour), accompagnato da Egypt 80, la storica band che combina ottoni, tastiere, percussioni, chitarra e voci in un groove potente e ritmato, in una formazione che comprende tredici musicisti e due cantanti-danzatori.
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