NEW YORK
Dopo la pioggia di premi per la magnifica interpretazione di The Wrestler e una vera e propria resurrezione in stile Hollywood, Mickey Rourke è diventato un attore estremamente richiesto. Per usare lo slang hollywoodiano, oggi il suo nome è nuovamente bankable, e tra i film che ha appena girato o sta per girare ci sono The Informer, Killshot, 13, The Expendables, oltre ai sequel di Sin City e Iron Man. Rourke è sempre stato un attore di talento, ma anche un uomo imprevedibile e ingovernabile, in grado di dare il meglio solo con registi dalla personalità forte: Coppola, Cimino e, recentemente, Darren Aronofsky. È stato proprio lui a paragonare il regista di The Wrestler ai suoi mentori, e spiega che «come Darren ne nasce uno ogni trent´anni: è intelligente, non accetta compromessi, sa come ottenere il meglio dai suoi attori». I due hanno instaurato una complicità giocosa, di cui si è avuta prova la sera in cui Rourke ha vinto il Golden Globe: quando ha ritirato il premio ha fatto grandi complimenti al suo regista per il talento e la dedizione, e per tutta risposta Aronofsky ha sfoderato un grande sorriso e ha mostrato il dito medio in diretta tv.
L´interpretazione di The Wrestler è una delle più coinvolgenti e struggenti degli ultimi anni ma, fedele al personaggio, Rourke preferisce parlare dell´aspetto fisico: «Mi sono sottoposto a una preparazione atletica di sette mesi, ho dovuto accumulare quindici chili di muscoli e ci sono riuscito grazie a un allenamento aggressivo e sei pasti al giorno a base di proteine. Ho dovuto anche imparare la tecnica del wrestling: nulla di più lontano dal pugilato professionistico». Oggi Rourke è un cinquantaseienne dai capelli ossigenati, che veste con colori improbabili e indossa sempre una medaglietta con l´immagine del suo chihuahua, morto da poco. Fa impressione sentirlo parlare di rigore e di preparazione atletica ma, per comprendere come sia arrivato a questo nuovo capitolo di una carriera che sembrava finita, è necessario ripercorrere le tappe di un´esistenza segnata dal disagio e dallo sbandamento.
È nato a Schenectady, una cittadina dello stato di New York, con il nome Philip André da un padre che si chiamava allo stesso modo e di mestiere faceva il body builder. Infastidito dall´omonimia, optò per il soprannome Mickey e cominciò a utilizzarlo per accentuare la distanza dal padre quando lui abbandonò la madre e lei si legò a un poliziotto che aveva già cinque figli. La mamma portò Mickey, la sorella Patty e il fratello minore Joey a vivere in Florida, dove Mickey cominciò a sentire la stessa attrazione del padre per gli sport muscolari. Si appassionò di boxe e a undici anni cominciò a combattere come peso gallo con un nuovo soprannome: “El Marielito”. Passò ai pesi welter e divenne lo sparring partner del campione mondiale Luis Rodriguez quando questo si preparava a sfidare Nino Benvenuti per il titolo dei medi.
Non era affatto male come pugile e arrivò a un record di dodici vittorie consecutive al primo round, ma dopo l´ennesima frattura decise di ritirarsi. «È tuttora la mia più grande passione», spiega con aria molto seria, «devo alla boxe se ho imparato il senso della disciplina: è per questo che ho ricominciato a combattere dopo aver iniziato a fare il cinema. Mi ha aiutato moltissimo». Ci tiene a raccontare come abbia cominciato a recitare quasi per caso: in una commedia diretta da un amico c´era bisogno di un sostituto e si poteva guadagnare qualche soldo. Non si divertì molto, ma sentì il bisogno di migliorarsi e con quattrocento dollari prestati dalla sorella si trasferì a New York a studiare recitazione. Interpretò un piccolo ruolo in 1941, uno dei pochi fiaschi di Steven Spielberg, e si trovò coinvolto nella catastrofe produttiva di I cancelli del cielo di Michael Cimino. Nel film era bravissimo, ma in quegli anni quella pellicola straordinaria era un titolo da non mettere nel curriculum.
All´epoca reagì con fastidio all´ambiente del cinema. Oggi la saggezza della resurrezione lo porta a dire che «Hollywood dipende da quello che fai, non da quello che ti fa. Esiste la possibilità del compromesso e può non essere sempre negativo». Fu scritturato in qualche film di qualità: Diner, un omaggio di Barry Levinson ai Vitelloni; poi Brivido Caldo, dove Lawrence Kasdan gli fece interpretare un piccolo malavitoso. Era un ruolo minore, ma di quelli che si ricordano. Tuttavia continuava a non divertirsi, e le cose andarono peggio quando venne chiamato a lavorare in televisione. Ma proprio mentre stava per abbandonare la nuova carriera incontrò Francis Ford Coppola, che lo volle in Rusty il selvaggio. Il personaggio di Motorcycle Boy lo trasformò in una star e in un sex symbol, e nel giro di un anno arrivarono i ruoli da protagonista in Nove settimane e mezzo e L´anno del dragone. Rourke non ha grandi ricordi del primo film, e non commenta la battuta di Kim Basinger, che lo definì «il portacenere umano». Ma di Cimino e Coppola parla con entusiasmo: «Francis è stato il primo regista importante con cui ho lavorato. Per me è stato un grande onore e so di avere imparato moltissimo. Da allora è stato impossibile non paragonare tutti gli altri registi a lui. Michael è il regista più tosto che abbia mai incontrato. Cimino è uno di quei cineasti americani più apprezzati in Europa che nel nostro paese, e quando è in forma è insuperabile».
In quegli anni avrebbe potuto scegliere qualunque ruolo ma, sconcertando agenti e produttori, cominciò a optare per personaggi rischiosi. Fu Henry Chinaski, l´alter ego di Bukowski, in Barfly di Barbet Schroeder, e poi San Francesco per Liliana Cavani, della quale oggi dice: «Liliana appartiene alla stessa categoria di Francis e Michael. Anche lei è estremamente tosta e ha le idee chiare. Ma capisce perfettamente il lavoro dell´attore e ha cercato insieme a me la verità di ogni scena. Mi ha insegnato moltissimo: è intelligente, appassionata e spero di lavorare nuovamente con lei».
L´ultimo ruolo interessante di quel periodo è quello del protagonista di Johnny Handsome di Walter Hill, un altro regista sanguigno con cui riuscì a legare. Poi iniziò un progressivo deragliamento esistenziale e professionale. Si vergognava di molti suoi film, e alla presentazione di Harley Davidson e Marlboro Man dichiarò che lo aveva interpretato solo per soldi. Cominciò a infierire sul suo corpo, come se volesse cancellare l´immagine di sex symbol: iniziò a ingrassare e a bere in quantità sconsiderata, si marchiò con tatuaggi di ogni tipo. Finì anche in galera per percosse alla prima moglie, Carrie Otis, con la quale aveva interpretato Wild Orchid, film che si ricorda solo per la leggenda secondo cui le scene di sesso sarebbero autentiche.
Ma il boicottaggio più forte lo fece alla carriera, rifiutando nell´ordine il ruolo di protagonista negli Intoccabili, Beverly Hills Cop, 48 ore, Rain Man e Highlander. Disse di no anche a parti di contorno nel Silenzio degli innocenti, Tombstone e Platoon, scegliendo invece film, di cui non ricorda neanche il titolo, che finirono direttamente nel malinconico mercato dei video. Fece di tutto per rendersi insopportabile: abbandonò il set di Luck of the Draw quando i produttori rifiutarono di dare un ruolo al suo chihuahua; insultò Tom Cruise in pubblico; esibì sfacciatamente le proprie amicizie pericolose, diventando intimo di Tupac Shakur fin quando non lo massacrarono con tredici colpi di pistola, e manifestando solidarietà a Carlos Monzon quando il campione fu imprigionato per aver ucciso la moglie. Ricominciò a boxare, spiegando «che non aveva alcun rispetto per se stesso come attore». Scelse come allenatore un membro degli Hell´s Angels, ricominciò una carriera dai buoni numeri (sei vittorie, quattro per ko, e nessuna sconfitta) ma modesta per il calibro degli avversari.
Leggendo dei suoi incontri, Tarantino gli offrì il ruolo del pugile in Pulp Fiction, ma lui rifiutò anche quello. Fu sfortunato con Terrence Malick: accettò con entusiasmo di partecipare alla Sottile linea rossa, ma la sua parte venne tagliata integralmente in sede di montaggio. L´unico sollievo in quel periodo fu il rapporto con un sacerdote italo-americano di nome Pete, che Rourke oggi definisce «cool», e grazie al quale è riuscito a «non perdere del tutto di vista la luce del giorno».
La rinascita professionale ci fu dopo il 2000 per merito di Tony Scott, che lo volle in Man on Fire e Domino, e di Robert Rodriguez, che lo scritturò per Once Upon a Time in Mexico e poi, insieme a Frank Miller, per Sin City. L´apprezzamento della critica fu unanime ma il fisico devastato e il volto troppo segnato sembravano confinarlo in ruoli da caratterista. Finché non gli arrivò la proposta di The Wrestler, un copione che sembrava inconcepibile senza di lui. Si innamorò subito del film e volle conoscere Darren Aronofsky al quale spiegò che lui “era” Randy “the Ram” Robinson. Per interpretare Randy disse nuovamente no a Tarantino, che lo aveva chiamato per Grindhouse, e dopo un ennesimo arresto per guida in stato di ubriachezza si concentrò sul film in un modo che lasciò a bocca aperta chi lo considerava ormai una causa persa. Nel momento del massimo sconforto aveva confidato: «Ho perso la casa, la moglie, la credibilità, gli amici. Ho perso l´anima». Ma oggi, dopo il successo, dice: «Sono stato all´inferno. E non ci tornerò».
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