Dalla rassegna stampa Cinema

Travolta: io, il sogno della classe operaia

Il 13 agosto a New York festa di compleanno per “Saturday Night Fever”, icona degli anni Settanta. Ce ne parla il protagonista

LOS ANGELES – Trent´anni da La febbre del sabato sera. Il leggendario film di John Badham con John Travolta che uscì nel dicembre 1977 e segnò un´epoca, l´era della disco music e del riflusso, verrà festeggiato a New York il 13 agosto. All´Academy Theater, in una serata organizzata dall´Academy of Motion Picture Arts and Science, verrà proiettato il film sul quale, al termine saranno chiamati a intervenire alcuni attori e artefici del cast tecnico. Non ci saranno i superstiti Bee Gees, autori della storica colonna sonora, e non ci sarà John Travolta, indimenticabile nelle vesti dell´operaio Tony Manero re delle discoteche, attualmente nei cinema con Hairspray, un´altra commedia musicale in cui si muove con la leggerezza di un Fred Astaire, in barba ai suoi 53 anni e ai panni femminili che indossa. Lo abbiamo incontrato a Los Angeles.
John, come ricorda a 30 anni di distanza La febbre del sabato sera?
«Con l´affettuosa riconoscenza per avermi fatto conoscere all´intero pianeta. Ha creato e modellato la mia carriera. Ed era giusto che fosse così, perché io ho il musical nelle vene, anzi, nel Dna».
Più che il mestiere dell´attore?
«Certo. Già quando avevo quattro anni ballavo, cantavo e recitavo, ispirato soprattutto da mia madre, Helen, attrice part-time e insegnante di recitazione. A sei anni presi lezione di tip-tap dal fratello di Gene Kelly, Fred. A 12 debuttai in teatro. A 16 abbandonai la scuola per unirmi a una compagnia di teatro di repertorio. Debuttai a Broadway nel 1974 col musical Over Here! con le Sorelle Andrews».
La febbre del sabato sera divenne il simbolo di un´epoca.
«Finì per rappresentare l´identità degli anni ´70, ed esercitò forti suggestioni in tutto il mondo. Quello era un decennio che non sapeva come definirsi: ci pensò il nostro film con la sua rabbia e la carica, anche sexy, del sogno della classe operaia. Di cui mi considero un degno frutto».
A quel film seguì Grease, il musical di maggior successo commerciale di tutti i tempi. Ha avuto paura a cimentarsi di nuovo in questo genere dopo 30 anni?
«Molti. Ci ho messo più di un anno prima di decidermi e dire sì a Hairspray. Ci tenevo a non rovinare la reputazione che mi ero costruito con Grease. Ma, come ho sempre detto, i migliori personaggi dei musical sono quelli femminili. Per questo ho rifiutato la parte andata poi a Richard Gere in Chicago. Ho fatto male, ma non sono uno che si rode nel pentimento».
Come affrontò l´improvvisa e clamorosa fama che le portò La febbre?
«Con immensa gioia. Sentivo che il pubblico mi amava. Ricordo che dopo quel film e Grease, ovunque mi chiedevano di ballare. A una festa in onore di Frank Sinatra, Sean Connery mi chiese di ballare con lui: e non puoi dire di no a James Bond. Anni dopo, nel 1985, la Principessa Diana mi chiese di ballare con lei nel corso di un gala alla Casa Bianca, al tempo di Reagan. La First Lady Nancy fece da trait-d´union. Venivo da un periodo nero nella mia carriera, ma il fatto di aver ballato con Diana, e lo scalpore che seguì, mi fece resuscitare. Qualcuno era di nuovo interessato a John Travolta».

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La disco cambiò la musica

Ballando finì l´integralismo del rock

l´epoca

GINO CASTALDO

Quando arrivò, la Disco fu un colpo basso sotto la cintura dell´integralismo del rock. Quei foulard fucsia, le paillettes, le mirrorball che roteando sui soffitti delle discoteche ammantavano la realtà di illusori bagliori, ma soprattutto quell´estrema confutazione di tutto ciò che potesse apparire impegnato in favore del più futile, sfrenato e puro divertimento, sembrava un insulto bello e buono all´idealismo di almeno tre o quattro passate generazioni.
Curiosamente, a ripensarci oggi, la rivoluzione della Disco partì in perfetta simultaneità con quella del Punk. Con la prima si scopriva la libertà dell´abbandono, triviale che fosse, ai piaceri lussuriosi e licenziosi delle notti da ballo (lo studio 54 di New York era la sirena che spargeva nel mondo il seme del disimpegno, poi emigrato a Ibiza e in tutti i luoghi di svago del pianeta), con la seconda si brutalizzavano i clichè del rock. Il diavolo e l´acquasanta, dunque, ma per paradossale che possa sembrare avevano in comune almeno un paio di cose. Entrambi tendevano a cancellare, a fare tabula rasa di quello che era avvenuto prima, come se il mondo cominciasse da capo, in quel preciso momento. Un´ebbrezza un po´ folle e decadente, da fine del mondo e successiva ricostruzione. E poi mettevano in discussione radicalmente i ruoli vaticinanti e messianici del musicista rock. La Disco, lo diceva il nome stesso, usava i dischi, ma le serate erano ugualmente happening, come se si fosse a un concerto (e da lì inizia la mutazione che porterà al deejaismo della tecno), i gruppi punk facevano a pezzi certezze, bon ton, qualità tecniche; bastavano tre accordi, sgraziati, e un urlo feroce. Entrambi erano atti liberatori.
La Disco in particolare fu la reazione più sfrontata al senso di colpa che attanagliava legioni di giovani. Divertirsi troppo era peccato. E puntuale arrivò il colpo di spugna. Il messaggio era chiarissimo: divertitevi, senza limiti, senza pudori, fate delle vostre notti il trionfo dei sensi. E infatti fu il primo genere musicale in cui trionfarono apertamente i gay, sufficientemente spudorati, perfettamente a loro agio nel travestitismo giocoso e oltraggioso della notte.

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