Dalla rassegna stampa Cinema

Cannes, tra sesso e zoofilia svetta il film di Van Sant sull'animo di un ragazzino

Nel giorno degli scandali, l’orrore umano

Robinson Devon ha studiato a lungo il gruppo di persone che avevano rapporti con i cavalli

CANNES — Il giorno degli scandali sessuali (annunciati) si è trasformato in quello degli orrori umani. E i film sui rapporti sessuali tra uomini e cavalli ( Zoo di Robinson Devor) e quello sulla mercificazione del corpo umano ( ImportExport di Ulrich Seidl) lasciano deluso chi sperava in immagini morbose o eccitanti per guidare invece lo spettatore in un viaggio davvero al limiti della notte umana.
Presentato alla Quinzaine, la sezione parallela che spesso ha rivelato autori e anticipato tendenze, Zoo
prende spunto da un fatto di cronaca: la morte nel luglio del 2005, per sfondamento del colon, di un uomo abbandonato davanti a un ospedale.
L’inchiesta della polizia porto a scoprire l’esistenza di un gruppo di persone che frequentavano una fattoria dello Stato di Washington per avere rapporti sessuali con dei cavalli. Dopo aver incontrato alcuni membri di quel gruppo, il regista Robinson Devor ha costruito un film dove i personaggi sono interpretati da attori, ma i lunghi dialoghi fuori campo sono quelli autentici dei protagonisti. E proprio il flusso di confessioni in prima persona finisce per guidare le immagini, sprovviste di qualsiasi tentazione voyeuristica ma cariche di una tensione angosciantissima.
Perché nonostante certe ammissioni, le ragioni che spingono una persona a sentirsi «maggiormente attratta da esseri non umani» restano di fatto inspiegate. E di fronte a questa insondabilità, Devor non chiede aiuto né alla psicoanalisi né alla sociologia: mette gli spettatori di fronte al mistero di quelle azioni e costruisce il film come un horror dell’animo, dove non esistono spiegazioni plausibili ma solo la scoperta di qualche cosa di inimmaginabile. Una specie di «male assoluto» che chi pratica neppure considera tale. Ma che lascia nello spettatore un senso d’angoscia che non se ne va facilmente.
Anche i due film in concorso di ieri, ImportExport dell’austriaco Ulrich Seidl e Paranoid Park dell’americano Gus Van Sant cercano di scavare nelle contraddizioni dell’animo umano, e con la stessa radicalità stilistica di Zoo, ma con punti di vista differenti. Che portano anche a risultati molto diversi tra loro.
Dopo Canicola (premiato nel 2001 a Venezia), Seidl continua il suo viaggio nella disperazione umana, ma la pietas che riscattava le vite desolate di quel film lascia il posto in ImportExport aun ambiguo compiacimento. L’infermiera ucraina (Ekaterina Rak) che cerca lavoro in Austria e lo trova in un ospizio per anziani e il giovane disoccupato (Paul Hofmann) che accompagna il padre (Michael Thomas) in un lungo viaggio europeo (che finisce proprio in Ucraina) per piazzare videogiochi e distributori di caramelle diventano testimoni, alla fine insensibili, di una sofferenza — quella degli anziani — e di una sopraffazione — quella sulle prostitute ucraine — che trovano spiegazione nell’egoismo e nella cattiveria umana, ma che sono raccontate con una insistenza troppo ambigua. E la lettura «politica» che in Canicola rimandava alla lezione di Bernhard qui diventa facile (e compiaciuta) «rassegnazione» metafisica sulla stupidità umana.
Al centro del film di Gus Van Sant c’è invece un romanzo di Blake Nelson sul delitto irrisolto di una guardia ferroviaria, travolta da un treno non per un incidente ma perché qualcuno l’ha colpito in testa con uno skateboard. Per questo il detective Lu (Dan Liu) decide di indagare tra i frequentatori di una pista conosciuta come Paranoid Park. Lo spettatore scopre ben presto che il responsabile dell’assassinio, del tutto involontario, è il sedicenne Alex (Gabe Nevins) ma Gus Van Sant racconta solo marginalmente l’inchiesta poliziesca, senza peraltro svelarcene la fine: piuttosto cerca di entrare nella testa di Alex, nelle sue paure e nei suoi silenzi, nelle sue frasi smozzicate e nelle sue azioni quotidiane per costruire il quadro di una «normalità» inquietante e insoddisfatta.
Qui il regista porta all’estremo il metodo messo in atto per Elephant e, con maggior radicalità, per Last Days, smontando la linearità cronologica ma anche mescolando riprese con tecniche diverse (il Super8 per le immagini «in soggettiva» degli skater e il 35mm, con un mascherino da vecchia inquadratura televisiva, per il resto) e affidando al una elaboratissima colonna audio, fatta di rumori, musiche, parole e suoni, (compresa una citazione da Nino Rota) il compito di offrire allo spettatore una specie di riflesso sonoro delle contraddizioni psicologiche e comportamentali di Alex.
In questo modo lo spettatore si trova davanti una specie di puzzle incompleto ma stimolante di un universo mentale che sfugge a ogni definizione, com’è quello appunto degli adolescenti, «ribelli» senza cause ma anche «assassini» per caso. E che Van Sant filma con empatia e curiosità insieme, senza mai lasciarsi andare a prese di posizione moralistiche, ma anche senza compiacimenti o facili giustificazioni.

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IL REGISTA DI «PARANOID PARK»

«Con la fine dell’innocenza racconto gli squilibri d’America»
Vorrei che gli spettatori riflettessero anche sulle proprie vite

CANNES — Tutto ciò che interessa a Gus Van Sant — all’uomo 55enne con qualcosa di adolescenziale nell’aspetto e al regista Usa indipendente tra i più interessanti a partire dagli anni Ottanta e vincitore della Palma d’oro nel 2003 per Elephant —è in
Paranoid Park, prodotto dalla MK2 del francese Marin Karmitz e che sarà distribuito in Italia dalla Lucky Red.
Dunque: si scandagliano sia l’artista-pittore- fotografo-scrittore, nonché montatore della pellicola, sia l’individuo parlando con Van Sant del film tratto da un autore, Blake Nelson, che sempre affronta nei suoi libri la crescita e gli squilibri dei ragazzi americani. Il regista, segnato da una malinconia mai compiaciuta, dice: «Si potrebbe cominciare dalla crisi che un evento, un incidente che provoca la morte di una guardia, genera in un adolescente, l’ultimo dei giovani protagonisti dei miei film. C’è sempre una svolta che ci fa entrare in una età diversa e a me interessa studiare e raccontare questo passaggio».
Racconta: «Ragazzo, andavo altrove salendo sui vagoni dei treni in corsa. Come Alex, il protagonista. Il giovane, però, colpito alle gambe dalla guardia, usa per difendersi il suo skateboard e l’uomo viene tranciato in due da un treno in arrivo. Non è un omicidio, è un incidente, ma lo sguardo di quell’uomo segnerà per sempre Alex. Sono i pensieri, le pagine che Alex scrive e non legge alla platea a narrare la storia».
Vogliamo elencare le altre emozioni e gli stili narrativi che nutrono lei come persona e questo suo film? «Lo stile non è uno perché mescola il video 8 alle riprese su pellicola; la vita narrata è quella di un microcosmo giovanile segnato dall’instabilità di quello parallelo familiare e di una società che con la guerra in Iraq ha approfondito ogni incertezza e disordine; la musica diventa il linguaggio connettivo delle immagini con le note di Nino Rota e con le dissonanze elettroniche del compositore Ethan Rose. I suoi motivi compiono lo stesso lavoro di scomposizione e ricucitura creativa dei miei film… Infine, ci sono nel film uno sguardo senza mai un giudizio etico sulla realtà e un altro sguardo pittorico sul paesaggio in cui i protagonisti si cercano». Il film è ambientato a Portland, città negli ultimi anni diventata, con Seattle, un emblema di metropoli americana a misura d’uomo e dove hanno trovato il loro habitat le anime inquiete di diverse generazioni di hippies ormai integrati e benestanti.
«Il sedicenne Alex e i suoi amici vivono in belle case, Alex è un ragazzo molto corteggiato, ha una famiglia che si sta sfaldando alle spalle, ma che gli lascia libertà, la macchina dato che in Oregon come in California la patente si prende prestissimo. Vivo a Portland, è una scelta che ho fatto anni fa, trascinato verso la natura del North West e anche dalla bellezza architettonica di molte località dell’Oregon. E’ nel microcosmo- macrocosmo di certe città di frontiera che si annida la vera vita americana, con i suoi squilibri; l’avevo già raccontato in altri miei film, sin dal primo, Mala Noche ».
Perché Alex trova nello skateboard, praticato nel campo che a Portland è un simbolo e dà il titolo al film, un rifugio? «Non mi interessa la cosiddetta cultura dello skateboard. E’ uno strumento nel film perché per gli adolescenti Usa, ricchi o poveri e di tutte le razze, lo skateboard è il rischio, ma è anche una sorta di ricerca di identità nella sfida, nel balletto corporale di una generazione sempre molto fisica».
Lei concorda con chi a volte vedendo i suoi film ricorda le parole di Pasolini sull’adolescenza «come eterna malattia»? «Le circostanze che segnano gli adolescenti tracciano e svelano il nostro destino di uomini portando, mi auguro nei miei film, lo spettatore avanti e indietro nell’analisi della propria e delle altrui vite».

Giovanna Grassi

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