Torna Damiano Damiani. Dopo più di trent’anni passati a scandagliare l’attualità, la cronaca, occupandosi di problemi sociali, mostrandone la lucida verità e perfino i tratti più crudi e sconvolgenti (basti ricordare Pizza connection e La piovra), sembra ora volerci spiegare il rapporto fra realtà e finzione, farci riflettere sul filo sottile che lega l’attore al resto del mondo, introdurci ai segreti di chi fa questo lavoro.
Tratto da un racconto di Marco Denevi, Assassini dei giorni di festa è un film di difficile catalogazione, per l’eclettico oscillare fra gesto scenico e consapevolezza, fra cadaveri e risate, in un’atmosfera surreale che non è pura fantasia, anzi coinvolge lo spettatore invitandolo a meditare e a distinguere il vero dal fittizio. Il nodo centrale del film è proprio nella continua frapposizione fra la parte recitata da ognuno dei teatranti e la lucidità in cui ripiombano quando sono in troupe e decidono le mosse, le azioni da compiere.
Come sul palcoscenico, c’è un regista, Illuminata (Carmen Maura), il capo carismatico del gruppo, che decide, spiega la scena e dirige gli attori. Ognuno di essi ha un suo ruolo definito: Patrizio (Riccardo Reim) è la spalla, l’attore navigato, quasi consumato dal mestiere; Onorato (Domenico Fortunato) è il tuttofare, la figura di comodo che riempie i vuoti di scena, il trovarobe sempre efficiente; Ancarsis (Gianmarco Giovi) è l’attor giovane, l’anima candida e pervasa di verità perchè non ancora contaminata dall’esperienza. E infine Meneranda (Agnese Nano) è il trait-d’union fra realtà e finzione, la giovane emotiva e maldestra piena di umane paure che a tratti abbandona la recita e va a nascondersi per poi farsi ritrovare. Fra tutti, la padronanza del protagonista spetta a Lucrezio, figura androgina che a un certo punto compie la trasformazione scenica più completa: il cambio di sesso, non solo nell’abito, bensì anche nel modo di pensare; si trasfigura in donna in maniera così convinta e radicale da far innamorare un uomo e innamorarsene a sua volta.
Ma un lavoro di tale finezza sulla propria personalità, un ruolo così magistralmente recitato non può non avere un prezzo da pagare: per un attore farsi sopraffare dal personaggio significa alla fine perdere la cognizione della sua vera identità, non saper più distinguere. A interpretare il giovane attore è poi nel film una donna, Sara D’Amario, quindi in questa aperta citazione dallo Shakespeare di “Come vi piace”, in questa duplice finzione si gioca l’alternarsi donna-uomo-donna in una continua osmosi di temperamenti e timbri vocali che al termine della rappresentazione può condurre a un unico finale: la morte di uno dei due (vedi Il ritratto di Dorian Gray di Wilde). Come nella vita, alla fine della recita il sipario inevitabilmente cala, si è compiuto il miracolo, gli artisti hanno messo in scena il loro capolavoro.
Ma allora, chi sono gli assassini e quali sono i giorni di festa? Assassino è chiunque si appropri dell’altrui vita; dunque, un attore. E giorno di festa è il momento della rappresentazione, il tempo che intercorre fra l’apertura e la chiusura del telone, scandito dal susseguirsi delle scene, in cui gli interpreti passano dal funerale ai brindisi, dalla veglia funebre alla musica, dal cordoglio al riso; perchè sul palcoscenico tutto è possibile, perfino sovrapporre il macabro al ridicolo. É parte integrante di questo mondo irreale compiere gesti artefatti e scenicamente costruiti, dunque ben intonata l’interpretazione ridondante e volutamente ampollosa dell’intero cast, a cominciare da Carmen Maura cui bastano le passionali espressioni del viso e le movenze delle mani per comunicare.
Convenzionale la collocazione storica negli anni ’50 – lo spettacolo della commedia umana non ha tempo – e l’ambientazione in Argentina, solo a tratti sottolineata dalle belle musiche di Beppe D’Onghia sul calco di un immaginario tango, la cui conclusione, come spesso accade nella danza argentina, è sospesa nell’aria per dare inizio al pezzo che verrà.
da Cineclick.it