Grido

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Grido

Un film estremo, un’avventura con lo spettatore sull’orlo dell’abisso. Alla fine, una flotta di barchette di carta è pronta a solcare i mari dell’immaginario. Viene voglia di partire. Grido ricorda più che gli omonimi film di Antonioni e di Skolimowski, il filmaker sperimentale canadese Michael Snow di «La Region Centrale». Lì dita elettriche percorrevano un territorio misterioso, pietra dopo pietra, e tutte le parti invisibili della tundra artica si mettevano così a vivere. Qui il regista, che sa come far recitare e commuovere le pietre (lo ha appreso in Israele, anche dalle tombe dei palestinesi, in Guerra), si mette davanti a noi con il suo dolore e tutto il resto. Narcisismo? Il contrario. Amore per il pubblico. Davanti agli occhi semichiusi dell’attore e drammaturgo che ricorda alcuni fatti importanti del passato (detour radicali; la scoperta del partner Bobò dove meno te lo aspetti, che non parla ma maneggia le mani come a Bali; la morte di un amante) è il nostro volto che acquista certezza, solidità. Grazie allo sguardo sbarrato che vede le nostre palpebre chiuse. Ecco il doppio gioco del cinema, Eyes wide shut. Inquadrare «l’amore». Per questo alcuni spettatori, nel documentario ripresi durante uno spettacolo, sono così turbati. L’amore, come lo specchio che è il cinema e come la morte, al lavoro 24 fotogrammi al secondo, ci dice che nell’amore il corpo è qui. (Roberto Silvestri – Il Manifesto)

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Da Il Messaggero (27 Ottobre 2006):

Salvarsi fuor di retorica

Un omone grande e grosso gira Napoli su una vecchia Lambretta con un omino piccolo piccolo seduto dietro. L’omone si chiama Pippo Delbono, l’omino solo Bobò. Perché è sordomuto ed è stato 50 anni nel manicomio di Aversa, da cui è uscito quando Delbono lo ha portato a vivere e a fare teatro con sé. Di Bobò non sapremo altro, né forse sarebbe possibile, ma che conta sapere ? Conta che Delbono lo ha salvato, e salvandolo ha salvato anche se stesso.
Non è retorica, è un pezzo di vita che Grido racconta con semplicità viscerale e un’emozione a tratti straziante. C’era una volta un ragazzone dal futuro grigio che scoprì il teatro, quasi un’ossessione, quindi l’amore, l’ebbrezza, la droga, poi arrivò una malattia da cui non si guarisce e un’altra ossessione, quella delle cure. Ma per curarsi bisogna curarsi di qualcun altro. Ed ecco Bobò, chiuso nel suo mistero. Bobò che ricorda pazzescamente Totò (impossibile non fantasticare: e se fosse un figlio naturale…?). Bobò inerme e contento. Delbono lavora da sempre con i matti, gli emarginati, i reietti, ma in Bobò ha trovato un mondo e una “lingua”, muta e potente.
Chi conosce i suoi spettacoli sa che questo teatrante amatissimo all’estero (e meno noto in Italia) deve qualcosa al tanztheater di Pina Bausch, trasfigurato a propria misura. Ma Grido scavalca ogni sapere per porsi come pura esperienza dell’altro. A vederli in Lambretta, Delbono e Bobò sembrano, anzi “sono” Enea col padre Anchise sulle spalle. Forse è questa oggi la mitologia che ci è concessa. ( F. Fer. )

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