Sequel della serie cult “I racconti di San Francisco” tratta dai racconti di Armistead Maupin, Netflix ci regala nel mese del Pride una miniserie che promette di essere guardata tutta d’un fiato.
Tratta dai volumi più recenti della saga, racconta la storia di Mary Ann, che dopo vent’anni torna a San Francisco.
Qui ritrova la figlia Shawna e l’ex marito Brian, che aveva abbandonato per dedicarsi alla carriera. In fuga da una crisi di mezza età causata da una vita quasi perfetta nel Connecticut, Mary Ann rientra rapidamente nella cerchia di Anna Madrigal, della famiglia che ha scelto e di una nuova generazione di giovani inquilini queer, tutti residenti del civico 28 di Barbary Lane.
Inizialmente mi ero lasciato convincere a guardare solo gli episodi piu’ recenti, poi mi son detto che in questo periodo il tempo per guardarmi tutta la serie dall’inizio c’era.
Devo dire che ho fatto bene a seguire l’istinto. E’ vero, gli episodi degli anni 90 sono datati e si nota lo stile narrativo d’altri tempi. Pero’ credo che per quel periodo siano stati comunque rivoluzionari, per il modo di trattare temi che ancora erano tabu’.
C’erano forse alcune ingenuita’ narrative, ma i personaggi erano ben delineati. Quest’ultima stagione e’ stata fantastica. Ho amato in particolare l’episodio del flashback. Una bella serie, che consiglio. Stando al finale, puo’ anche esserci una successiva stagione volendo. 🙂
Non avevo mai sentito parlare di TALES OF THE CITY. Né dei libri, né delle miniserie. In un pomeriggio di marzo 2020, durante la forzata prigionia in casa, imposta da un recente decreto legge, io e il mio compagno abbiamo praticamente selezionato una roba a caso su Netflix. Forse aiutati dal fatto di avere scarsissime aspettative, ci siamo lasciati piacevolmente conquistare dalle piccole vicende narrate. Storie di amicizie durature, sentimenti mai sopiti, rancori che devono venire a galla per essere dimenticati. I protagonisti orbitano attorno ad un condominio che ricorda molto Melrose Place. L’anziana locatrice, Anna Madrigal, non è solo la donna a cui tutti pagano l’affitto; è anche il punto di riferimento, la sostituta madre che tutti amano. Ed ecco servito un potpourri di vite intrecciate, che si seguono facilmente, senza bisogno di conoscere ciò che viene prima. Al termine della serie 2019 (ce la siamo sparata in due giorni), ci sentivamo tristi (gli appassionati conoscono bene la sensazione di vuoto che segue la fine di una serie che ti ha preso di brutto), così abbiamo dato un’occhiata ai capitoli precedenti. O meglio, abbiamo guardato insieme i primi due episodi della stagione 1993, ma il mio compagno si è annoiato al punto da lasciarmi continuare da solo. Io mi sono costretto a guardare l’opera omnia, sperando di trovare un briciolo di quello che avevo amato nella serie 2019, ma non ho trovato nulla. La serie 1993 è vecchia in tutti i sensi. I personaggi gay non hanno quasi contatti fisici tra loro. La vena mystery che caratterizza tutte le stagioni (ed è anche il punto debole di tutte) è eccessivamente pesante, rispetto al tono leggero generale. I personaggi hanno le carte in regola per essere interessanti (interagendo tra loro, intendo; non presi uno ad uno), ma le loro storie sono di una noia fastidiosa. Le stagioni 1998 e 2001 sono decisamente più queer. Il personaggio di MOUSE è caratterizzato molto meglio e guadagna importanza. I gay sono mostrati nudi, si baciano e viene perfino mostrata una sauna (tenete conto che parliamo un prodotto televisivo rivolto a tutti, non solo al pubblico gay). Le storie sono leggermente più interessanti, ma siamo lontani dalla versione 2019. In più, il fatto che MOUSE venga interpretato da 3 attori diversi è snervante (il migliore è Bartlett… e non lo dico solo perché mi sono affezionato a lui con LOOKING).
In definitiva, consiglio di vedere unicamente gli episodi più recenti.
Bellissima serie, ma non è GGG è più che altro QQQ