True Detective (seconda stagione)

True Detective (seconda stagione)
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True Detective (seconda stagione)

Le differenze con la prima stagione sono molte anche se l’ambientazione (pur diversa) e l’accurata introspezione dei personaggi ci assicurano che siamo nella stessa serie seppure con personaggi e storie diverse. In questa seconda stagione ci viene risparmiato il montaggio che sovrapponeva passato e presente e la vicenda si dipana in modo sequenziale per tutti i personaggi. Ciò nonostante non ci risulta facile comprendere appieno quanto sta accadendo e dove andremo a parare. Nella prima stagione era subito chiaro l’obiettivo principale (trovare l’assassino) qui ci vengono mostrate situazioni complesse che solo dal terzo episodio riusciamo a decifrare, ma restiamo comunque affascinati dalle immagini e dai personaggi di una California dove speculazione, affarismo e delinquenza sembrano coinvolgere tutti, polizia e boss, in un vortice che mantiene sempre qualcosa di segreto e inspiegabile. Ma che ci cattura forse per questo. I personaggi principali sono questa volta quattro, i poliziotti interpretati da Farrell, Kitsch e McAdams e il gangster diventato uomo d’affari, Vaughn. Rachel McAdams, la prima protagonista femminile della serie, interpreta la Detective Ani Bezzerides, una donna sicura di sè, decisa a farsi rispettare ed a provare quanto sia dura. Al cinema l’abbiamo apprezzata in Mean Girls (Regina George) e La neve nel cuore (Amy Stone). Taylor Kitsch, attore e modello, ex giocatore di hockey (ha smesso dopo un incidente), l’abbiamo apprezzato nel ruolo di Bruce Niles (fondatore di Gay Men’s Health Crisis) nel film “The Normal Heart”, e qui mantiene un ruolo gay, più ambiguo e complesso, quello del poliziotto motociclista Paul Woodrught, reduce di guerra in crisi da stress post traumatico, ma soprattutto in conflitto col suo essere gay e il desiderio di essere apprezzato dai suoi colleghi. Nel quarto episodio della seconda stagione lo vediamo incontrare un ex commilitone col quale ha avuto una storia, cosa che lui vorrebbe dimenticare, ma poi li vediamo finire insieme a letto. Fuggito precipitosamente dall’amico, che invece lo richiama a non aver paura di essere se stesso, incontra una ragazza che gli dice di aspettare un figlio da lui. A Paul sembra essere piovuta dal cielo l’occasione per liberasri da se stesso e farsi una vita ‘normale’, così lo vediamo raggiante mentre le dice di amarla e di volerla sposare…

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La seconda stagione di True Detective, composta da 8 episodi, è in onda ogni lunedì alle 21.10 in versione doppiata e alle 22.10 in versione originale sottotitolata, su Sky Atlantic.

Dal sito di Sky Atlantic:

Ecco cinque motivi per cui non potete proprio non guardare il secondo capitolo di True Detective.

I personaggi e il cast –
Così come McConaughey e Harrelson lo sono stati per la prima stagione, anche per la seconda il fiore all’occhiello è sicuramente il cast, dai quattro protagonisti ai personaggi di supporto. I tre true detective Ray Velcoro, Ani Bezzerides e Paul Woodrugh (interpretati da Colin Farrell, Rachel McAdams e Taylor Kitsch) e l’ex (?) criminale ora imprenditore Frank Semyon (interpretato da Vince Vaughn) riescono a catturarci fin dall’inizio, e adesso non vediamo l’ora di sapere quali ombre sono nascoste nel loro passato e come andranno a influire nel loro presente. Come dichiarato da Farrell in un video rilasciato da HBO, “a definire i personaggi sono le situazioni in cui si vengono a trovare, e Nic ha scritto delle scene veramente fantastiche, che rendono in maniera fisica il loro tormento emotivo”. Tormento emotivo che i quattro attori esprimono in maniera chiaramente diversa, ma comunque magnetica. Da segnalare anche Kelly Reilly, che nella serie è Jordan, la moglie e complice di Frank.

L’atmosfera rovente ma cupa –
Non sappiamo voi, ma a noi visivamente questa seconda stagione fa l’effetto della carta vetrata sulla pelle unita a una secchezza di gola che manco nel deserto del Nevada. In senso “buono”, meglio precisarlo! Il cambio di location ha chiaramente portato con sé anche un cambio di atmosfera, sottolineata da una fotografia caratterizzata da toni ipersaturi. Scordatevi la California “da cartolina”, perché quella di True Detective è una California spietata, malata, dunque perfetta per la cupezza della storia e soprattutto per il buio e il vuoto che portano dentro se stessi i personaggi.

La scrittura –
Pizzolatto sa quello che fa. Magari si prende il suo tempo, magari ci gira un po’ intorno, ma sa esattamente dove andare a parare. Se i monologhi e le riflessioni di Rust della prima stagione sono, giustamente, rimasti nella nostra memoria, non abbiamo dubbi che anche in questo nuovo capitolo ci saranno dialoghi memorabili, e ci sentiamo di dire quasi con assoluta certezza che sarà Velcoro, il personaggio di Farrell a regalarceli. Alcuni, anzi, ce li ha già regalati: lo scatto di rabbia col figlio e lo scambio di battute con Frank nel primo episodio, e poi la frase-chiave “Ho un forte sospetto: abbiamo il mondo che ci meritiamo”. Ray ci darà grandi soddisfazioni.

La musica –
Il buon Nic controlla attentamente ogni aspetto, dunque anche la parte musicale. Se la sigla inizialmente ci aveva lasciato un po’ straniti, ora già l’amiamo, mentre le canzoni scelte per i singoli episodi sembrano create ad hoc per le scene che accompagnano. Alcune, anzi, sono state proprio create appositamente per determinati momenti: stiamo parlando dei pezzi interpretati dalla cantautrice Lera Lynn, di cui vi abbiamo parlato qui, conosciuta come “la cantante da taglio vena nelle scene ambientate al bar”. Chissà cosa ci riserveranno i prossimi episodi?

Il mistero –
E’ vero, il focus è sui personaggi, sulle loro interiorità, ma ammettiamolo: True Detective è comunque la storia di un’indagine, infatti siamo tutti curiosi di conoscere l’identità dell’assassino…o degli assassini! E c’è un solo modo per scoprire chi è “testa di corvo” e perché ha fatto ciò che ha fatto: arrivare all’ultimo episodio.


Presentazione di Gianmaria Tammaro su Wired.it:

Una volta non c’era che oscurità. Per come la vedo io è la luce che sta vincendo”. Rust e Marty sono fianco a fianco, nel parcheggio di un ospedale, al buio della sera e con lo sguardo rivolto al cielo. La voce del primo è roca, bassa; quasi sibilante. Il viso del secondo è una maschera spigolosa avvolta nella penombra.
Finiva così la prima stagione di True Detective: una stagione ricca di colpi di scena; una stagione intensa, coinvolgente e incredibile sotto ogni punto di vista – rivoluzionaria, a modo suo.
Con la nuova stagione (di cui abbiamo visto i primi tre episodi in anteprima), True Detective cambia registro, anche – e forse soprattutto – nella sua storia. Qui bene e male non ci sono. Non sono separati così nettamente come lo erano nei precedenti episodi. La narrazione si tiene su un andamento lento, ponderato – ma si fa, in qualche modo, più distesa. I protagonisti sono avvolti da uno spesso strato di grigiore in cui non esistono né giusto né sbagliato.
Ci sono tre poliziotti e c’è un criminale. C’è la legge e ci sono gli affari. Poi c’è il male: quello vero, terribile, che resta lontano e intangibile come il cattivo delle favole. Non lo vediamo mai (almeno per i primi tre episodi): il viso resta sempre coperto, gli abiti scuri; la sua è una minaccia senza voce. Sappiamo che c’è, ma non sappiamo chi e dove sia.
Nic Pizzolatto scrive una storia nuova, più cupa e – in un certo senso – più lineare. Inspessisce il background dei personaggi, riempie i silenzi e allunga, quando serve, i dialoghi. I colori di una fotografia pulita, intensa, e la regia sorprendente di Justin Lin, che si prende una pausa dalla frenesia di Fast & Furious. E True Detective è di nuovo qui, diverso e pure, nello stesso tempo, uguale: una serie tv che è riuscita a portare il cinema sul piccolo schermo e a ridare alla scrittura il posto che le spetta.
Il cast è cambiato. Non ci sono più Matthew McConaughey con la sua parlata lenta e trascinata, e Woody Harrelson. Qui siamo nella contea di Los Angeles, non più in Louisiana. Vince Vaughn è Frank Semyon, un criminale che sta provando a ripulire i suoi soldi e i suoi affari, per qualcosa di più grande e di più importante; Colin Farrell è Ray Velcoro, poliziotto corrotto dal passato oscuro, violento e alcolizzato, baffi neri e capelli lunghi. Rachel McAdams interpreta Ani Bezzerides, una detective difficile ai rapporti personali e restia ad accettare il mondo per quello che è (“abbiamo il mondo che ci meritiamo”, le dice Ray a un certo punto). Quindi c’è Taylor Kitsch, che interpreta Paul Woodrugh, giovane agente di polizia e (già) veterano di guerra.
La trama, contrariamente alla prima stagione, è più semplice ed essenziale; è un giallo: un uomo, un consigliere comunale, è morto e sia i tre poliziotti che Frank vogliono sapere chi è stato. Tre distretti, tre poliziotti. La ruota che gira e la soluzione che, anziché avvicinarsi, si fa sempre più lontana e meno chiara.
In questo, Pizzolatto dimostra ancora una volta di conoscere perfettamente i meccanismi narrativi: non risparmia i colpi di scena (ce ne è uno piuttosto importante già alla seconda puntata; e vi terrà col fiato sospeso fino all’inizio della terza); e non risparmia nemmeno i suoi personaggi. Li prende, li strapazza, li distrugge. Poi li fa rialzare, un bicchiere di liquore in una mano e la pistola al fianco, e li ributta nell’arena a combattere. Contro chi, o cosa, non si sa.
È un gioco al massacro: psichico, più che fisico. È letteratura pura applicata alla televisione. Niente è come sembra. La musica, le donne, l’alcol: è un mondo, quello di True Detective, così marcio da sembrare vero – possibile, addirittura. L’unica certezza è che bene o male non esistono. O forse sì, ma sono così simili, così vicini tra loro, che è quasi impossibile distinguerli.
Ray e Frank, in particolare, rappresentano la sintesi perfetta di questo connubio: entrambi sono tallonati dal passato ed entrambi, nonostante le apparenze, sono profondamente fragili.
Per questa caratterizzazione così attenta dei personaggi, True Detective si fa, in un certo senso, anche più teatrale. Un po’ com’è stato per House of Cards. È l’interazione tra le persone, quello che provano e chi sono veramente, che sembra interessare di più a Pizzolatto. Non la storia. La storia è solo un pretesto: un palco ideale in cui fare incontrare i personaggi. Persino la morte di un uomo, per quanto possa essere terribile e nera e incomprensibile, non importa; piuttosto è come essa si riflette sui protagonisti e le loro vite che conta. Tutto, così, diventa scenario. E True Detective si popola di persone, non più solamente di storie.
Nic Pizzolatto e Hbo, il network produttore della serie, hanno provato a fare qualcosa di diverso con questi nuovi episodi. Hanno provato a ricominciare, tenendo sempre presente la qualità e l’attenzione per i dettagli. Questa non è, banalmente, televisione. Questa è qualcosa di più, è puro intrattenimento. Un romanzo che sa di film, e un film che sa di pièce teatrale. Vi coinvolgerà, più – e forse meglio – della prima stagione. E rimarrete incollati allo schermo, puntata dopo puntata. Alla fine, ne vorrete ancora. È questo il segreto del successo di True Detective: farsi irresistibile, nonostante la sua complessità e i suoi personaggi morbosi.

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