UN PROTAGONISTA GAY (TORMENTATO) NELLA SERIE "TRUE DETECTIVE" SECONDA STAGIONE

Si tratta di un poliziotto gay, che preferirebbe essere etero, interpretato dal bel Taylor Kitsch (The Normal Heart)


Taylor Kitsch nel ruolo del poliziotto gay

Arrivati al quarto episodio della seconda stagione di True Detective, viene rivelata l’omosessualità di uno dei protagonisti principali, il poliziotto Paul Woodrught. True Detective è stata la serie evento del 2014, con protagonisti e produttori due stelle del cinema americano come Matthew McConaughey e Woody Harrelson, che rimangono produttori esecutivi anche della seconda stagione ma lasciano il ruolo di protagonisti ad altri, in primis all’amatissimo (soprattutto dal pubblico gay) Colin Farrell. La serie viene trasmessa dal canale Sky Atlantic, con la prima versione italiana degli episodi ogni lunedì in prima serata (prende il posto del Trono di Spade, ma forse non lo stesso successo di pubblico).

Le differenze con la prima stagione sono molte anche se l’ambientazione (pur diversa) e l’accurata introspezione dei personaggi ci assicurano che siamo nella stessa serie seppure con personaggi e storie diverse. In questa seconda stagione ci viene risparmiato il montaggio che sovrapponeva passato e presente e la vicenda si dipana in modo sequenziale per tutti i personaggi. Ciò nonostante non ci risulta facile comprendere appieno quanto sta accadendo e dove andremo a parare. Nella prima stagione era subito chiaro l’obiettivo principale (la caccia al serial killer), qui ci vengono mostrate situazioni complesse che solo dal terzo episodio riusciamo a decifrare, ma restiamo comunque affascinati dalle immagini e dai personaggi di una California dove speculazione, affarismo e delinquenza sembrano coinvolgere tutti, polizia e boss, in un vortice che mantiene sempre qualcosa di segreto e inspiegabile. Ma che ci cattura forse per questo. I personaggi principali sono questa volta quattro, i poliziotti interpretati da Farrell, Kitsch e McAdams e il gangster diventato uomo d’affari, Vaughn. Rachel McAdams è la prima protagonista femminile della serie, interpreta la Detective Ani Bezzerides, una donna sicura di sé, decisa a farsi rispettare ed a provare quanto sia dura. Al cinema l’abbiamo apprezzata in Mean Girls (Regina George) e La neve nel cuore (Amy Stone). Taylor Kitsch, attore e modello, ex giocatore di hockey (ha smesso dopo un incidente), l’abbiamo apprezzato nel ruolo di Bruce Niles (fondatore di Gay Men’s Health Crisis) nel film “The Normal Heart”, e qui mantiene un ruolo gay, più ambiguo e complesso, quello del poliziotto motociclista Paul Woodrught, reduce di guerra in crisi da stress post traumatico, ma soprattutto in conflitto col suo essere gay e il desiderio di essere apprezzato dai suoi colleghi. Nel quarto episodio della seconda stagione lo vediamo incontrare un ex commilitone (interpretato da Gabriel Luna) col quale ha avuto una storia, cosa che lui vorrebbe dimenticare, ma poi li vediamo finire insieme a letto. Fuggito precipitosamente dall’amico, che invece lo richiama a non aver paura di essere se stesso, incontra una ragazza che gli dice di aspettare un figlio da lui. A Paul sembra essere piovuta dal cielo l’occasione per liberasri da se stesso e farsi una vita ‘normale’, così lo vediamo raggiante mentre le dice di amarla e di volerla sposare…

Riportiamo la recensione apparsa sul Corriere a firma Maria Laura Rodotà:

True Detective, la serie, è una forma di dipendenza e una terapia. Ha funzionato nella prima stagione; si è rimasti coinvolti, si è stati malissimo, si è rielaborato, se ne è usciti migliori. O forse era un’autoillusione, di quelle di cui parla con scoramento filosofico l’ex poliziotto Rust Cohle. Ha funzionato meno, o almeno diversamente, nella seconda; non c’erano due personaggioni come Cohle-Matthew McConaughey e Marty Hart-Woody Harrelson. I protagonisti erano spesso sia bidimensionali sia incomprensibili; la storia era sempre neo-noir, ma complicata, confusa, forse pretestuosa. C’erano momenti di intensa — anche rabbiosa — empatia e momenti di perplessità. Non c’era più il regista della prima tornata, Cary Fukunaga, e si sentiva.
La «weird fiction»
Ma c’erano gli stessi elementi generatori di dipendenza della prima: l’essere una weird fiction , una narrazione a balzi di cose strane-segrete-cruente mescolate alla normalità. E l’essere cupa. Nei personaggi, negli esterni che raccontano quanto la cupezza dell’ambiente circostante e la cupezza interiore formino un sistema di vasi comunicanti. Come nella vita e nelle opere del creatore, un trentacinquenne di nome Nic Pizzolatto. Scrittore diventato sceneggiatore diventato showrunner , cioè capo dei capi di una serie, non sopporta la sua famiglia sparsa tra New Orleans e i bayous della Louisiana (dove è ambientata la prima stagione). Non sopportava neanche di doversi adattare a trame e soggetti altrui lavorando nelle writer’s room di Los Angeles (e dintorni, dove è ambientata la seconda). È, par di capire, un disadattato capace di occasionali imprese mirabolanti, come i suoi non-eroi.
«I personaggi di Pizzolatto sembrano destinati a vedersi crudelmente negato ciò che desiderano di più», si è letto. Forse per questo accompagnano lo spettatore attraverso le proprie frustrazioni, e oltre. Cohle e Hart indagano, dice lui, dove «c’è tanta gente povera e stupida, alcol, risse, fanatismo religioso, ignoranza. E violenza come legittima retorica quotidiana». Mentre nella Los Angeles dove si muovono Colin Farrell-Ray Velcoro, poliziotto corrotto dagli occhi addolorati, e Vince Vaughn-Frank Semyon, malavitoso sobrio con ambizioni, «il macabro è in evidenza». Anche nelle riprese aeree degli svincoli autostradali, trasmettono angoscia e senso di isolamento in una città senza fine.
E sono isolati i protagonisti. Incontrano reti di persone potenti e orrori mai del tutto spiegabili. Nella seconda stagione c’è anche un donna, la vicesceriffo Ani (Antigone) Bezzerides-Rachel McAdams. Figlia di un guru New Age, tonica e arrabbiata, quasi una metafora californiana. C’è poi un agente reduce di guerra e un po’ gay. Ci sono poi critici e pubblico, che hanno capito poco per molte puntate. Tra loro c’è la scrittrice seria Joyce Carol Oates. Ha recensito nonstop su Twitter; definisce True Detective «una fantasia altamente selettiva… Di improbabili comportamenti eroici di persone amareggiate e senza dedizione professionale».
Insomma bene, ma «uno dei molti proiettili dovrebbe raggiungere la straziante cantante del bar».

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