Un manifesto estetico scritto in tre racconti. Uno e trino come nella teologia. Non è mai nominato, ma è proprio Dio il deus ex machina di questo libro amorale che, nel suo squilibrato equilibrio tra libertinaggio e santità, galleggia sulla palude dei vizi terreni ma sogna cieli paradisiaci. Abbandonata l’odissea borghese del romanzo Cavalli alati, i due autori si sdoppiano nelle sembianze dantesche di due pellegrini postmoderni che attraversano inferni, purgatori e paradisi di questo nuovo millennio. Un viaggio dentro l’abisso delle tentazioni, spericolato e inquietante, gioioso e irriverente come un Carnevale. Il primo racconto, decisamente punk, trabocca di lusso e lussuria. Di immagini decadenti e di estasi psichedeliche. Scritto in un linguaggio innovativo che fa a pezzi sintassi e punteggiatura e danza come nella musica di un rock furioso. Trabocca come un fiume in piena, poi raggiunge il delta del secondo racconto dove si distende maestoso in un ampio bozzetto verista, colorato e vociante come il teatrino siciliano dei pupi. Qui scorre lento in una scrittura da reportage giornalistico incisa nella carne e nell’anima di un personaggio vero di nome e di fatto. Francesco, travestito sul viale del tramonto che si è guadagnato la vita nel quartiere catanese di San Berillo. Un po’ guitto, un po’ santo questo personaggio che ha conosciuto le bolge infernali, si redime per mezzo del Cristo e scopre una nuova dimensione dell’amore. Ma non mancano le sorprese nel terzo racconto in cui il dandy si autocancella, per restare autentico. È proprio questo l’ultimo colpo di teatro nella commedia di questi tentatori tentati dal serpente. In questo caso un siciliano moro arabeggiante alle prese con due animali del sesso. Un luminoso gigolò olandese e una perla nera, preziosa come un dio africano.
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