“M”, titolo che richiama il famoso film di Fritz Lang sul mostro che uccideva bambini (probabilmente perchè anche qui abbiamo diversi ‘mostri’), è l’unico lungometraggio documentario presente nel concorso principale del Festival di Locarno 2018 , dove ottiene il Premio della Giuria per la sua potenza espressiva (più di contenuti che di stile) e per la sua capacità di entrare nel profondo di una storia che coinvolge tutta una comunità di ebrei, gli haredi (timorati di Dio), ebrei ultra-ortodossi, che vivono nella città di Bnei Brak (loro capitale mondiale, 200.000 abitanti, fondata nel 1920 da famiglie chassidici), a 20 chilometri da Tel Aviv. Il tema è quello della pedofilia, che finora abbiamo visto tormentare soprattutto la Chiesa Cattolica, e che qui si rivela in tutta la sua mostruosità all’interno di una diversa e insospettabile assise religiosa.
Il film inizia con il protagonista Menahem (da qui la M del titolo), ora trentenne, che su una spiaggia di Tel Aviv canta, con la sua bellissima voce, una canzone yiddish. Dietro questa bella immagine sentiamo però subito che si nasconde qualcosa di brutto, una terribile sofferenza. Menahem prende la macchina fotografica e dice “Ero un ragazzino porno, un ragazzo per il piacere degli uomini”. Oggi Menahem ha deciso (in due anni di lavoro con la regista) di denunciare la violenza subita, di mettere in chiaro le vicende del suo passato, che lo costrinsero (aiutato dalla sua bella voce) a fuggire dalla sua città natale e trovare rifugio a Tel Aviv.
Ora Menahem, ritornato dopo 15 anni nella sua città, fa parlare molti altri che come lui sono stati abusati da coloro, famigliari, istruttori e capi religiosi, che avrebbero dovuto aiutarli a crescere. Tra gli intervistati c’è anche uno degli stupratori, un ragazzo abusato che dice di aver perdonato il padre che lo violentava, perché suo nonno era un uomo aggressivo sopravvissuto alla Shoah. La cosa impressionante è che emerge chiaramente come l’abuso sui giovani maschi fosse una prassi consolidata, quasi un’ovvietà, mai denunciata ma ben nota a famiglie e autorità (sono stati infatti presi provvedimenti in merito, come permettere ai bambini di frequentare le sinagoghe solo se accompagnati dai genitori). Come spesso in questi casi vige il principio che si fa ma non si dice. Eppure siamo in un centro di assoluta religiosità, che dovrebbe essere governato da Dio in ogni dove, una città che sembra emergere dal medioevo.
Il protagonista ora vuole però riconciliarsi con la sua famiglia (che non sente da anni) e col suo passato, è convinto che sia sufficiente denunciare e mettere allo scoperto quella comunità omertosa (che finora ha fatto finta di non vedere e di non sentire), per ristabilire una giustizia impossibile. Come se tutto questo avesse una funzione terapeutica, in grado di ristabilire l’armonia perduta con se stesso e con gli altri. Alla fine Menahem si sentirà finalmente tornato a casa. Quest’ottimismo è forse l’unico difetto di un film coraggioso, intenso e capace di farci sentire nel profondo il dolore di tante giovani vite spezzate, lasciate incerte e dubbiose su loro stesse e sul loro futuro, sulla loro sessualità e sui loro desideri. La regista francese di origine ebraica Yolande Zaubermanalla, alla fine del film, in chiusura, ripete una frase attribuita a Kafka: “Io sto tra la mia gente con il coltello per aggredirla, io sto tra la mia gente con il coltello per proteggerla” spiegando che per lei questo film è il suo coltello.
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