“La prima volta che Fassbinder lesse Berlin Alexanderplatz, il capolavoro «modernista» di Alfred Döblin, aveva solo quattordici anni, ma l’ incontro fu di quelli che non si dimenticano più. Nel romanzo, che racconta l’ odissea morale e umana di un facchino uscito di galera nella Berlino del 1922, Fassbinder vide soprattutto il rapporto ambiguo e insinuante tra il protagonista, Franz Biberkopf, e il malavitoso Reinhold, un legame «d’ amore» (castissimo) ma inequivocabilmente sadomasochista che spinge Franz a tornare sempre nella banda di Reinhold, e che nell’ animo del giovane Fassbinder si intreccia alla scoperta della propria omosessualità: la lettura di quelle pagine gli servì per mettere in chiaro la propria esistenza e capire la natura delle proprie inclinazioni. «Mi ha aiutato a tenere duro» dirà più tardi. Quando nel ‘ 79 la televisione tedesca gli offre la possibilità di trasformare quel libro in uno sceneggiato di 13 puntate più un epilogo, Fassbinder ha quasi 35 anni (e gliene mancano tre alla sua tragica morte) ma è chiaro che per lui quell’ impegno diventa l’ occasione per fare i conti con i tanti fantasmi che si è portato dentro tutta la vita, trasformando un adattamento televisivo in una specie di «autobiografia intellettuale». Così la sua Berlin Alexanderplatz perde molte delle valenze sociali e politiche per diventare il ritratto di un uomo divorato dall’ autodistruzione, dove il sacrificio e la morte sembrano offrire l’ unica strada possibile per entrare in sintonia con la (autodistruttiva) storia della Germania. Addossando a un uomo quel destino di sofferenze e sconforto sentimentale che solitamente la letteratura affida alla figura femminile, Fassbinder prova a fare i conti con una identità – morale oltre che sessuale – che deve pochissimo ai rapporti sociali (mentre Döblin, che pubblicò il romanzo nel 1929, vedeva già lucidamente nella «passività» di Biberkopf il futuro nazista del suo Paese) e che invece sembra soprattutto preda di comportamenti e pulsioni patologiche e distruttrici. Privilegiando in questo modo gli interni sugli esterni e regalandoci alcuni indimenticabili figure di «umiliati e offesi», a cominciare proprio dal Franz Biberkopf che Günter Lamprecht sa tratteggiare con straordinaria adesione, per continuare con i tanti ritratti di donne sfruttate a cui offrono la loro bravura Hannah Schygulla, Barbara Sukowa, Elisabeth Trissenaar, Annemarie Düringer, Karin Baal e molte altre ancora.” (P. Mereghetti, Corriere della Sera)
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