• G. Mangiarotti

Mommy

Quinto film del regista canadese Xavier Dolan, gay dichiarato, e primo distribuito in Italia. Vincitore al Festival di Cannes del Premio della Giuria, dove ha vinto anche la Palma d’Oro dell’International Cinephile Society Awards. E’ anche il primo film del genietto Dolan (solo 25 anni) che non affronta apertamente nessuna tematica gay, sebbene Dolan abbia dichiarato che il film è in gran parte autobiografico. In effetti il protagonista del film, Steve O’Connor Després (un bravissimo Antoine-Olivier Pilon), potrebbe benissimo essere gay, lo vediamo ballare truccato, con la madre che gli dà della checca, e non appare mai interessato a nessuna ragazza, mentre, come ogni adolescente, si diletta con la masturbazione. L’interesse che dimostra verso l’amica vicina di casa Kyla (Suzanne Clément) è più provocatorio che sessuale. Anche il bellissimo personaggio di Kyla, potrebbe avere qualche tendenza, vista la sua estraneità alla famiglia, marito e figlio, e non sappiamo quale sia stata la causa della recente balbuzia che l’ha costretta ad abbandonare temporaneamente l’insegnamento. Ma, come dicevamo, Dolan in questo film evita volutamente di affrontare problematiche d’orientamento, avendo a cuore di approfondire una delle sue tematiche preferite, madre e figlio, con la quale esordì nel 2009 con “J’ai tué ma mère”. Allora sembrava che volesse quasi vendicarsi di un amore che non riusciva ad afferrare e che colpevolizzava. Adesso le cose sembrano capovolte, è la madre che fatica a capire l’amore del figlio, immenso, e per questo difficile da gestire.
Una cosa che ci ha inizialmente infastidito è la scelta di girare il film nel formato 1:1, quello dei televisori di una volta o del primo cinema muto. Dolan ha spiegato che gli sembrava il formato migliore per poter insistere sui volti, sui visi dei personaggi, sull’ampia gamma delle loro espressioni. In effetti questo formato impedisce qualsiasi distrazione, concentrandoci sempre sull’essenziale. E’ come se la regia volesse prenderci per mano e portarci esattamente dove vuole. Quando vediamo per qualche secondo lo schermo che si apre, assume anche un altro significato: lo schermo è stretto perché strette ed anguste sono le vite dei protagonisti. Così noi aspettiamo sempre che lo schermo si riallarghi, liberando i nostri eroi dai vari tormenti. Ma questi tormenti restano la spina dorsale del film. Sono generati dall’incomprensione, sociale ed individuale. Una società che non vuole aiutarti, che si rifugia nelle maniere forti (con, ad esempio, leggi assurde che permettono ad una madre d’internare il figlio), restando sempre estranea e diffidente. Anche le persone, che sono sicuramente vittime, hanno le loro colpe, quando si rinchiudono in se stesse o quando mentono a se stesse e agli altri (terribile la scena finale tra la madre e l’amica, dove la paura di scoprire i propri veri sentimenti genera una fredda pantomima, più crudele di qualsiasi violenza fisica).
Il film ci racconta essenzialmente un triangolo: una madre che si sente davanti al proprio fallimento, un figlio che non sa come uscire da un legame affettivo che sembra danneggiare entrambi, un’amica che vorrebbe aiutarli e scopre che questo è anche l’unico modo per aiutare se stessa. Le disabilità di ciascuno potrebbero essere una forza per tutti. La madre che non riesce a gestire la propria vita, il figlio che rischia l’autodistruzione, l’amica che si ritrova con una vita vuota. Potrebbero essere ad un passo dalla risoluzione positiva delle proprie esistenze, e solo con le loro forze, se non fosse che viviamo in una brutta società che, quando si accorge di aver prodotto degli scarti, preferisce eliminarli anziché risolverli.
La grande abilità del film, quasi un piccolo capolavoro, è quella di raccontarci una storia difficile e profonda, in modo semplice e lineare, con degli attori che, come ha sottolineato il regista, sono capaci di creare dei personaggi veri, al di là di qualsiasi performance. Un film che ci aiuta a leggere la vita, spesso ostile e difficile da capire.

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