La vita di Adele

E’ come vedere un quadro molto da vicino, o avvicinarsi a una scultura per spiarne le ombre tra le pieghe. Un primo piano su un momento di vita di una giovane donna, Adele. Del resto, lo esplicita il titolo, “La vita di Adele” di Abdellatif Kechiche, film tanto amato dal pubblico e dalla giuria di Cannes da ricevere il massimo del plauso, la Palma d’oro, all’ultima kermesse. Come in un quadro o in una scultura, sembra non ci sia molto da raccontare, se non un istante. Eppure in quell’istante si racchiude l’intera parabola umana, l’estasi e il tormento di una storia d’amore che inizia e finisce, come tutto nella vita. E prima che essa trovi una nuova forma cui adattarsi, nuove pieghe da assumere, c’è una sorta di immobilità sofferente nel ricordo, incerta nel futuro. Il fatto che il sottotitolo ci indichi si tratti del 1 e 2 capitolo della vita di Adele, fa pensare che un futuro ci sarà, comunque.
In questa prima parte, incontriamo Adele appena diciassettenne, incerta sulle sue scoperte sessuali, convinta di avere qualcosa che non va fino a quando non incontra la sua prima vera passione in una ragazza dai capelli blu. Un incontro che pare predestinato, quindi inevitabile, apparentemente eterno. Ma così non è, la strada del destino prenderà ad un certo punto altre svolte.
Sulla trama non c’è altro da dire, non è quella la via dello sguardo. Piuttosto Kechiche ci costringe ad entrare quasi nel corpo di Adele, a sentire la sua fisicità, la bocca i capelli il sesso, non c’è altro di lei, continuamente. Siamo sballottati come la sua coda tormentata dall’elastico, come le sue labbra sporche di sugo o di muco, come le sue mani che scavano nel corpo dell’amante.
Chi non ha apprezzato questo film ne ha giudicato la morbosità. Che c’è, eccome. E’ quella del regista e la nostra, inevitabile quando si vuole andare a vedere fino in fondo. E per quanto faccia male sapere che il set è stato un inferno per tutti, soprattutto per le due attrici principali (Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux) , ma anche per l’intera troupe che da sempre denuncia Kechiche di “sevizie lavorative” (di lui in Italia ricordiamo “La schivata” e “Cous Cous”), per quanto tutto ciò sia deplorevole, viene da pensare che senza un certo quantitativo di sofferenza non si raggiunge il momento di grazia. Quello, appunto, che qui Kechiche è riuscito ad intrappolare. Per poi restituirlo a tutti noi, con semplicità e senza alcun orpello pornografico, nonostante le lunghe sequenze di amore lesbico. La perfezione di un momento nella vita di Adele e nella nostra.
…………………………

autore: G. Mangiarotti voto:

Un capolavoro. Lo abbiamo già visto tre volte ed ogni volta ci è piaciuto ancora di più. Ma qual’è la sua magia? Una magia che ce lo fa paragonare ai classici dei grandi autori del cinema, che ci penetra nelle viscere, che ci accompagna a lungo anche dopo la visione. D’accordo, il film ci prende così tanto perchè anche noi siamo omosessuali, perchè possiamo ritrovarci in ogni sequenza del film, perchè per noi tutto è chiaro e coinvolgente, dall’inizio del film fino all’ultima scena. Però abbiamo visto tantissimi altri film lgbt, ma pochissimi ci hanno scavato dentro come questo, ancora di più dell’amatissimo Brokeback Mountain o dell’intrigante Mulholland Drive. E’ indubbio che il regista franco-tunisino Kechiche ha toccato con quest’opera, della quale si vocifera che sia già in corso un seguito, il vertice dell’epressionismo cinematografico. Cinema-verità, cinema del reale e nello stesso cinema del soprannaturale, cioè di tutto quello che accade nell’inconscio, oltre i semplici gesti, oltre i sentimenti, perfino oltre i nostri sogni. Kechiche è riuscito in questa mirabile impresa (che ci conferma come l’arte del cinema sia la più completa e totalizzante), realizzando un perfetto equilibrio, una perfetta miscelazione tra le immagini (merito anche del bravissimo fotografo Sofian El Fani), la scenografia (scarna ed essenziale, che ci viene mostrata a partire da chi la anima), e le interpretazioni (nominate in via straordinaria all’assegnazione della Palma d’Oro al film, ma meritavano di più), centro vitale di quest’opera. Impossibile non innamorarsi di ciascuna delle due interpreti. Dalla 19enne Adèle Exarchopoulos (Adèle), che riempie lo schermo e il cuore di ogni spettatore coi suoi occhioni luccicanti, alla matura Léa Seydoux (Emma), già da noi apprezzatissima in “Plein sud”, che con ogni sguardo riesce a comunicarci la ricchezza del suo mondo interiore. Adèle ed Emma sono due donne molto diverse, vuoi per età (Adèle è ancora minorenne quando si conoscono), per intelletto (Adèle è semplice e ingenua mentre Emma è intellettuale e scafata), per classe sociale (Adèle viene da una famiglia proletaria, tradizionalista, mentre Emma da una famiglia borghese e progressista), e naturalmente per esperienza. Adèle è ancora alla ricerca della sua identità, fa sogni omo ma vorrebbe innamorarsi di un ragazzo come fanno tutte le sue coetanee. Un bacio occasionale con una compagna di scuola le provoca un piacere inaspettato, soprattutto se paragonato al rapporto sessuale, pur completo, che ha avuto col ragazzo che si è innamorato di lei, che quindi subito abbandona. Adèle sta uscendo dall’adolescenza, ha scoperto la propria sessualità, ma vive in un ambiente ancora tradizionale, a partire dalla famiglia che non la capirebbe, fino alla scuola, ancora in una fase di trasformazione, con studenti che hanno la forza di dichiararsi (vedi il suo più caro amico) ma con altri che prendono ancora gusto a ridicolizzare i gay. Adèle, per tutto il film, sia nella prima che nella seconda parte, non riesce a trovare il coraggio di viversi fino in fondo alla luce del sole. Soprattutto a scuola, dove è diventata insegnante, e pensa che farsi conoscere come lesbica potrebbe danneggiarla. Questa paura, questa insicurezza, pesa fortemente su tutta la sua vita, anche sentimentale. Gli autori hanno disegnato perfettamente quella che è ancora la condizioni di molti omosessuali, anche di quelli che vivono nei paesi più liberi ed emancipati. Con Emma ci viene invece presentato quello che dovrebbe essere il nostro punto di arrivo: una persona consapevole e sicura, che vive apertamente la propria omosessualità (già nella prima scena la vediamo in strada teneramente abbracciata alla sua ragazza), giustamente orgogliosa della propria diversità (si dipinge i capelli di blu come fosse il suo manifesto), sia in famiglia (dove è teneramente supportata) che sul lavoro (capace di rifiutare un affare se comporta anche un minimo compromesso). Il mondo di Emma è quello di una persona realizzata, che non vede nessuna differenza tra la sua vita (omo) e quella degli altri (etero), tanto che arriva presto a sentire il bisogno di avere figli, di avere una famiglia completa… La storia del film è tutta mirabilmente e onestamente giocata su questa contrapposizione. Anche la passione più grande deve pagare il suo prezzo all’autenticità di ciascuno, alla propria libertà interiore ed esteriore, alla propria completa realizzazione. Una splendida lezione di vita.

Effettua il login o registrati

Per poter completare l'azione devi essere un utente registrato.