• G. Mangiarotti

I toni dell'amore

Film dai toni delicati, quasi leggeri, all’interno di una quotidianità che tutti probabilmente abbiamo conosciuto. Ci sono amici e parenti, adolescenti e persone mature, case e famiglie dove ognuno ha i suoi problemi, le proprie abitudini, i suoi impegni di lavoro e le piccole o grandi difficoltà di conciliare il tutto. Questa volta il regista gay Ira Sachs, che ci aveva ammaliati con l’acuta introspezione di una storia d’amore gay giovanile in “Keep the Light On”, sembra rivolgersi più all’ambiente, alle contingenze esteriori, ai condizionamenti sociali e ambientali che, bene o male, influiscono sempre sull’andamento complessivo delle nostre più intime relazioni. Anche qui abbiamo una intensa storia d’amore gay, questa volta tra due uomini anziani, sessanta uno e settanta l’altro, che però è andata oltre, dopo quasi trent’anni di convivenza, alla dialettica delle incomprensioni e della comunicazione verbale. Oggi i due anziani gay si amano forse ancora di più di un tempo, sono diventati infatti come una persona sola, guardano le cose ognuno con gli occhi dell’altro, la sessualità si è estesa a tutto il corpo (bellissimo quando uno dice all’altro che non può sopprimere il bisogno quotidiano di toccare e sentire la sua pelle). La cosa peggiore che potrebbe accadere a queste due uomini, serenamente e felicemente innamorati, è la separazione fisica, seppure temporanea. Il regista Ira Sachs ha detto che l’dea del film gli è venuta in parte da un fatto di cronaca ma soprattutto da una serie di eventi che hanno recentemente segnato la sua esistenza. Probabilmente è per questo che nel film ritroviamo così tanta realtà e verità (al di là di due gay che si amano ancora follemente dopo tanti anni di convivenza), con situazioni che ci sembrano quasi famigliari.

Il film, tenero ed intimista, sembrerebbe lontanissimo da tanto cinema militante impegnato a promuovere l’accettazione dell’omosessualità. Ma non è così, il suo impegno è solo più sottile, e forse per questo ancora più penetrante. Probabilmente è per questo che la MPAA americana gli ha assegnato una assurda R (divieto ai minori di 17 anni di entrare in sala non accompagnati da un adulto), nonostante sia un film privo di qualsiasi nudità, droghe, violenza o sesso (i due protagonisti li vediamo solo dormire abbracciati completamente vestiti). Si tratta della solita ipocrisia, così bene esemplificata nel film con l’atteggiamento della Chiesa cattolica che per tanti anni sapeva dell’omosessualità di George (Alfred Molina) e della sua convivenza con l’amato compagno Ben (John Lithgow), ma lo accettava senza contestazioni come direttore del coro della scuola (dove pure gli alunni ed i loro genitori sapevano tutto di George), salvo cambiare completamente atteggiamento dopo il suo matrimonio gay, reso possibile dalle nuove leggi dello Stato di New York. Encomiabile la reazione di George che viene licenziato su due piedi e ribatte, all’ipocrita direttore scolastico, che non sapeva che “essere se stessi sia una cosa disdicevole”.
I due novelli sposi dovranno abbandonare la casa che stavano pagando con un mutuo (grazie allo stipendio che ora George ha perso) e dividersi temporaneamente in attesa di trovare una nuova e più economica sistemazione. A questo punto dobbiamo verificare che anche la società americana, che si ritiene così aperta e progressista nei confronti dei gay, alla prova dei fatti ha ancora qualche perplessità.

Il film inizia con la bellissima cerimonia del matrimonio gay di George e Ben (quest’ultimo un pensionato ex pittore), unico momento apertamente militante del film, che ci delizia con gli interventi di parenti e amici, tutti entusiasti dell’avvenimento. Kate (Marisa Tomei) e suo marito Elliot (Darren Burrows) parlano dello zio Ben e di George come della coppia più amabile e perfetta del mondo, dalla quale hanno imparato moltissimo. Purtroppo quando Ben dovrà andare temporaneamente a vivere da loro, risulterà quasi d’impiccio, per non parlare della possibile influenza che, loro pensano, potrebbe avere sul figlio adolescente. Quest’ultimo, Joey (Charlie Tahan), è legatissimo all’amico e compagno di scuola Vlad (Eric Tabach), cosa che all’occhio dei genitori comincia a diventare ambigua. Joey sente il peso della cosa, e lo sentiamo ripetere allo zio che lui non è gay. Quando poi il suo amico Vlad, più libero e senza gli occhi dei genitori addosso, sembra affezionarsi a Ben (posa per lui sulla terrazza della casa per un quadro), Joey inizia a ribellarsi e scappare. Avere in casa uno zio omosessuale non è come andarlo a trovare ogni tanto (magari solo per buona educazione).

Si parla tanto anche del dialogo e della comprensione tra generazioni differenti, soprattutto all’interno della comunità gay. Anche qui il film lancia sottili punzecchiature. George infatti trova sistemazione in casa di due giovani poliziotti gay che abitano al piano di sotto, dove deve acccontentarsi di dormire sul divano. Qui deve dire addio alla tranquillità alla quale era abituato nel suo appartamento e sopportarsi una festa dopo l’altra, fino alle ore piccole, con un via vai di sconosciuti che probabilmente lo considerano a livello di un soprammobile.

Non pensate comunque al classico film di denuncia, lontanissimo dalle intenzioni del regista, che invece è preoccupato a farci entrare, quasi in punta di piedi, con estrema sensibilità e delicatezza, nel mondo e nella realtà dei nostri due eroi. Come dice George ad una sua giovanissima allieva di pianoforte, “non si possono imporre i propri tempi a Chopin”, così non possiamo pretendere che gli altri si adattino facilmente alle nostre esigenze, o viceversa, soprattutto quando siamo così distanti (magari per età od orientamento).
Peccato per un finale un po’ troppo didattico, unica pecca che rimproveriamo al film, dove ci si allontana dalla quotidianità, e s’immagina un passaggio di testimone alle nuove generazioni (la lunga sequenza che mostra Joey in skateboard verso il tramonto insieme alla fidanzatina)

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