"LE COSE CHE RESTANO" EVENTO TV DELL'ANNO

Da lunedì 13 dicembre inizia su Rai Uno la miniserie tv, che non viene chiamata film solo per la lunghezza di sei ore, che ha tra i protagonisti principali il fascinoso Claudio Santamaria nel ruolo di un omosessuale moderno nel quale tanti potranno identificarsi.

Lunedì 13 dicembre in prima serata tv su Rai Uno inizia la miniserie in quattro puntate di “Le cose che restano”, attesissimo film di 352 minuti diretto da Gianluca Maria Tavarelli su sceneggiatura di Sandro Petraglia e Stefano Rulli, gli stessi sceneggiatori di “La meglio gioventù“. Una versione ridotta era stata proiettata al Festival di Roma con grande successo, accolta all’unanimità come una delle cose migliori fatta dalla nostra tv in questi ultimi anni. Vorremmo lodare il coraggio della Rai e la sua capacità di rinnovarsi grazie ad opere come questa ma non ci sappiamo spiegare perchè questa serie non abbia ancora nessun spazio nel suo sito web e complessivamente una scarsissima pubblicità, o forse lo sappiamo ma anche noi ci vergognamo di dirlo!
“Le cose che restano”, titolo che prende spunto da un verso di Emily Dickinson, è la storia di una famiglia che si divide e di una casa che si svuota, a seguito di un evento doloroso. Ma è anche la storia di come, a poco a poco, la famiglia e la casa ritrovano vita e senso, lasciandosi abitare – e contaminare – da nuove esistenze, nuovi stili di vita, nuovi rapporti interpersonali. Nora, Andrea e Nino reagiscono con fatica e coraggio al disorientamento che li colpisce, cercando – fuori e oltre la famiglia – altri mondi, altri amori, altre spinte a vivere. Accanto ad essi si muovono i nuovi cittadini italiani, uomini e donne tra i venti e i quaranta anni, presi nel giro del lavoro che c’è e non c’è, della responsabilità e della moralità che si appannano, delle guerre che combattiamo senza dire che le combattiamo, dei popoli che vengono a noi dalla povertà e ci interrogano. È una storia che cerca di raccontare chi siamo, cosa siamo diventati, e cosa non vogliamo più essere. Così, questa famiglia che confusamente resiste e faticosamente si ricompone, si fa simbolo di un intero paese alla ricerca di una nuova identità.

Nel film ha un ruolo da protagonista la figura di Andrea, il figlio omosessuale interpretato da Claudio Santamaria (un attore già amatissimo dal pubblico gay) che in proposito ha dichiarato:”Ci siamo interrogati su come rendere questo personaggio, e abbiamo deciso di farlo nel modo più naturale possibile. Abbiamo voluto evitare di dare caratterizzazioni marcate, e stereotipate, della sua omosessualità.” Andrea è impiegato presso il ministero al controllo dei flussi migranti e ha una bella storia con un uomo incontrato per caso, Michael (Thierry Neuvic, famoso attore francese visto in “Clara Sheller” e anche nel brutto film gay “Autopsy”). Si impegnerà con l’affido di una bambina e i problemi che ne seguono e darà ospitalità ad una donna irachena e a sua figlia, diventando forse uno dei personaggi più positivi del film. Finalmente un personaggio gay importante nel quale tantissimi potranno identificarsi.
Claudio Santamaria, intervistato al Festival di Roma, alla domanda se anche lui, come aveva dichiarato Julianne Moore, pensa che il futuro sia dei gay, ha risposto più realisticamente: “Vorrei che fosse più al femminile, anzi, vorrei vedere un presidente del Consiglio donna, basta con questi maschi bavosi.


Michael (Thierry Neuvic) con Andrea (Claudio Santamaria)

Lo sceneggiatore Sandro Petraglia ha detto che “Dopo aver cercato di raccontare il passato del nostro paese con “La meglio Gioventù”, era grande la voglia di parlare del nostro presente con un film che contenesse varie sottotrame e sottotesti”.
Lo sceneggiatore Stefano Rulli riassume così il senso del film: “Il tema di fondo è quello di una famiglia borghese di professionisti che vive una vita felice e armoniosa fino a quando non viene colpita da un lutto: la morte del figlio più piccolo sconvolge tutti gli equilibri, la grande casa si svuota e ognuno cerca la propria strada fuori da questa famiglia che non esiste più. Tutti i personaggi sono colti in un momento chiave della loro vita e devono cercare quindi un nuovo senso alla vita e a se stessi. Gli incontri che faranno permetteranno loro di ricostruire un nuovo senso e un nuovo modo di essere casa. Abbiamo sentito il bisogno di ripensare la famiglia, questa miniserie è una riflessione su un nuovo mondo e sulle scelte esitenziali che cambiano profondamente il senso della famiglia“.


Gianluca Maria Tavarelli (al centro) con Sandro Petraglia e Stefano Rulli al Festival di Roma 2010

Il regista Gianluca Maria Tavarelli ci parla del suo film:

Avevo apprezzato enormemente “La meglio gioventù”, vidi il film tutto di seguito all’anteprima dell’Auditorium di Roma.
Mi piace molto in generale il racconto “nel tempo”, come Heimat, epopee che durano molto e sviluppano generazioni che si alternano, eventi storici che si mescolano con accadimenti privati. Quando Angelo Barbagallo mi ha proposto il progetto de “Le cose che restano” mi è piaciuto subito. Una vicenda che si svolge nell’arco d’un paio d’anni appena, ma che aveva bisogno d’uno sviluppo narrativo di sei ore perché i personaggi, i percorsi che compiono, hanno necessità di tempo. I traumi che la vita impone ai personaggi necessitavano d’uno sviluppo più lento. Rispetto all’eredità de La meglio gioventù non mi sono mai sentito penalizzato, anzi è un’ombra che fa bene. Sono orgoglioso di dire che “Le cose che restano” nasce da una costola di quel grande successo.
“Le cose che restano” racconta una vicenda del tutto diversa ma con la stessa straordinaria capacità di Rulli e Petraglia d’intrecciare le storie, di riuscire ad inventare snodi narrativi attraverso i quali la trama procede o cambia binario.
Un grande affresco sulla sostanza della società italiana, anzi direi della società occidentale, che affrontano temi come l’immigrazione, l’omosessualità, un’apertura nuova nei rapporti interpersonali.
Il mio lavoro è consistito nel dare vita alla sceneggiatura attraverso gli attori, gli ambienti, la messa in scena vera e propria. Le vicende che il film racconta sono molto minime, tristemente quotidiane, piccoli spostamenti del cuore, grandi
o piccoli tradimenti. Una quotidianità in linea con i miei film precedenti. Le cose minime sono raccontabili soltanto attraverso degli attori in grado di riportare quelle sfumature. È un film pieno di dolore, d’emozione tangibile.
Era importante non renderlo lacrimevole, grazie a degli attori che recitassero in modo molto naturale, molto vero. Avevo subito pensato a Daniela Giordano per il ruolo della madre, perché avevo già lavorato con lei in Paolo Borsellino. Sapevo che ha le corde perfette senza bisogno di “recitare”, con quel suo volto da bambina maturata. Lo spaesamento del personaggio della madre è stato reso da Daniela in modo naturale, senza mai calcare sull’angoscia, soltanto con il suo sorriso dolce che nasconde la disperazione. Nel caso di Claudio Santamaria, che interpreta il ruolo del fratello omosessuale, abbiamo cercato di raccontare l’amore di due persone l’una per l’altra sottraendoci a tutti i possibili luoghi comuni, alle posture del corpo o della voce, mirando all’anima di quel rapporto. Esattamente come lo vive una coppia eterosessuale, con gli stessi desideri. Anche di Paola Cortellesi e di Ennio Fantastichini conoscevo già il potenziale enorme.
A me piacciono molto gli attori “caldi”, nel senso che abbiano un proprio vissuto, un loro mondo messo totalmente a disposizione del film. Penso che un padre come quello che interpreta Ennio non debba essere infallibile, non piangere mai,
ma che debba avere le sue debolezze. Però lui sa esserci nei momenti importanti, e quando ritorna è realmente un padre, non nel senso dell’autorità ma perché capisce i problemi dei figli e sa far sì che si aiutino da soli.
Più complicato è stato scegliere un attore per il ruolo di Nino, dell’età cioè d’uno studente universitario. Abbiamo fatto moltissimi provini. Lorenzo Balducci ne fece due, e alla seconda mandata interpretò tre scene perfettamente. È un attore che sa trasformare qualunque cosa gli fai fare in un modo vero e credibile. Nino è difficile, controverso, meno “positivo” rispetto agli altri personaggi. Critica le cose che fa, non è coerente, aggredisce il padre e poi si comporta nel suo stesso modo, a volte è saputello. C’era il rischio di rendere Nino antipatico, oppure di spogliarlo di certe sue contraddizioni. Lorenzo è riuscito invece, malgrado i lati negativi del personaggio, a tenerci sempre dalla sua parte, a farsi capire. Per il ruolo del fratello minore cercavo invece un attore che fosse un po’ il suo opposto. Facendo una serie di provini abbiamo incontrato Alessandro Sperduti che è molto allegro nella vita, ti trasmette subito un senso di amicizia. Sul set con gli attori in generale non abbiamo fatto grandi prove, quasi sempre abbiamo subito girato. Volevo che non perdessero la spontaneità, ma anche l’insicurezza che hanno la prima volta che interpretano una scena.
Spesso giravamo anche le prove. In una prima versione il testo s’intitolava “La casa”, ed era quella la protagonista del film. Ci abbiamo messo molto a trovarla, ad arredarla, trasformando degli uffici notarili dismessi in una dimora borghese. La casa è importantissima per quella famiglia numerosa, fracassona, e segue il percorso dei personaggi. Dopo un periodo iniziale di luci accese si va svuotando, rimane chiusa, al buio, e alla fine viene riconquistata gradualmente, stanza per stanza, riprendendo le sue funzioni vitali, la sua forza. Si riempie di altre vite, di altre situazioni. Analogamente la macchina di Lorenzo segue un percorso simile, evoca come un totem un personaggio che nessuno riesce a dimenticare. La macchina riprende poi vita, riporta Nino dalla madre esorcizzando un dolore. Dallo sfasciacarrozze la macchina diventa il simbolo di qualcosa che non puoi più portarti dietro per continuare a vivere.
Il film racconta gli immigrati come esseri umani a tutto tondo, capaci di pensare. Shaba infatti è il personaggio che capisce meglio quanto accade. Quando entra nella casa di notte con uno sguardo percepisce tutto ciò che era successo lì. Lei si conquista lo spazio da sola, con la sua bontà, la sua intelligenza, la sua capacità d’aiutare Nino senza mai chiedergli niente. Anche la madre di Nino si specchia completamente in Shaba.

Gianluca Maria Tavarelli

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