"Uomini che odiano le donne" e mal sopportano le lesbiche

Questi ultimi sembrano essere gli autori di libro e film, che comunque ci regalano un prodotto superiore alla media del genere, ricco di personaggi e momenti suggestivi, in uscita sui nostri schermi da venerdì 29 maggio.

Sulle conseguenze nefaste di padri stupratori e sulle aberrazioni di uomini che odiano le donne e diventano serial killer è già stato detto moltissimo, sia in letteratura che al cinema. Eppure questo ennesimo film sui suddetti argomenti, riesce a tenere viva la nostra attenzione per tutte le due ore e mezzo dello spettacolo, anche se non riesce mai ad “esaltarci”. Merito di un’ottima sceneggiatura che mescola in modo originale ed interessante passato e presente (le sequenze fatte elaborando immagini e i filmini d’epoca sono assai suggestive), e merito di una storia “gialla” che evita molti luoghi comuni del genere poggiandosi più sul carattere dei personaggi che sulla suspence o i colpi di scena, che comunque non mancano.

“Uomini che odiano le donne” è tratto dalle oltre 500 pagine dell’omonimo romanzo di Stieg Larsson, giornalista di professione, purtroppo scomparso per infarto a soli 50 anni, prima di poter vedere vedere pubblicata la sua opera.
Il regista Niels Arden Oplev e gli sceneggiatori hanno dovuto sacrificare gran parte dell’opera, come ad esempio quasi tutta la controversia tra il protagonista e la direttrice della rivista in cui lavora, riuscendo comunque a presentarci l’anima dei personaggi, che, cosa rara in un film “giallo”, vediamo crescere e svilupparsi nelle rispettive personalità col procedere della vicenda. Peccato che la produzione abbia voluto cambiare la regia per i due film successivi (già girati), andando incontro alle proteste dei fans della trilogia “Millenium” che non hanno gradito le troppe libertà che il regista Oplev si è preso rispetto all’originale. A nostro giudizio la riuscita del film risiede invece proprio nella capacità di Oplev di aver creato un’opera che non ha bisogno di rimandi al testo scritto per essere compresa, presentandosi con un taglio originale e compiuto, senza comunque tradire nulla dello spirito e degli obiettivi del libro.

Impossibile raccontare la storia del film (e del libro) che è essenzialmente un giallo, cioè un’indagine, condotta da due outsider, per scoprire il colpevole di un delitto avvenuto quarant’anni prima all’interno di una famiglia dell’alta borghesia industriale, dove si annidano invidie, corruzione e anche molto peggio.
La critica sociale, nonostante quanto dichiarato dal regista Oplev che dice: “Ho voluto conservare nel film lo spirito tagliente del libro, ho voluto che avesse il coraggio di mostrare il lato oscuro della società”, è forse la parte più debole e meno incisiva del film (emerge solo nelle ultime sequenze del film e più che sociale sembra ancora l’ennesima variante sul serial killer psicopatico).

Come già detto da molti (vedi le recensioni sulla scheda del film) il film cattura veramente quando sulla scena appare il personaggio di Lisbeth Salander (Noomi Rapace), un’esile post-punk hacker, piena di piercing e tatuaggi, considerata malata di mente e quindi in libertà sotto tutore, che aiuta il protagonista Mikael Blomkvist (Michael Nyqvist, un attore che non rende giustizia alla vitalità del personaggio) nelle indagini. Lisbeth si presenta ombrosa e diffidente, sofferente di un passato pieno di violenza che si ripete anche ora nelle vesti del suo nuovo tutore (tremende le scene dello stupro e di lei che si vendica stuprando lo stupratore, quasi un film nel film). La sua forza è nella capacità di reagire, di metabolizzare, di accumulare in positivo dopo essersi liberta (anche vendicandosi senza pietà) del marcio che la perseguita.

Lisbeth è lesbica (la vediamo a letto con la compagna che vive con lei) e questo avrebbe potuto essere una testimonianza della sua libertà interiore e della sua forza vitale, incurante di qualsiasi condizionamento sociale. Anche fino alla scena in cui cerca il membro di Michael, usandolo come un dildo per un orgasmo sessuale, possiamo vederla come una lesbica senza inibizioni o pregiudizi sessuali. Ma poi la ragazza sembra innamorarsi di Michael, abbiamo baci e abbracci assolutamente etero e alla fine, nell’ultima scena del film, la vediamo completamente cambiata, completamente donna, con tanto di vertiginosi tacchi a spillo. Non sappiamo come apparirà nei due film successivi, ma certamente, alla fine di questo, la ragazza (lesbica) sembra “guarita”. Sia lo scrittore che il regista (entrambi uomini) sembrano avere inserito l’elemento lesbico come momento di passaggio, come sottolineatura della degradazione a cui la protagonista era stata costretta da una vita crudele, ma che, grazie alla sua capacità di reagire e lottare, saprà superare conquistandosi una regolare “normalità”.

Noi non vogliamo essere moralisti all’incontrario, per cui possiamo comprendere anche questo pizzico di “fantasia” letteraria che, secondo gli autori, dovrebbe servire a farci comprendere l’evoluzione del personaggio, la sua lotta e la sua conquista di una vita finalmente serena e “normale”, lontana dagli incubi e dalle violenze del passato. Anche se per quasi un’ora di film ci eravamo illusi di avere finalmente davati l’eroina di un film mainstream, che poteva essere lesbica e nello stesso tempo capace di lottare e liberare il mondo dalle ingiustizie senza rinnegare la sua natura. Aspettiamo fiduciosi una prossima occasione.

Qui sotto una immagine della protagonista Lisbeth

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