Il contagio
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  • Editori Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri)

Il contagio

Diranno i posteri se la trilogia compiuta da Walter Siti due anni fa con Troppi paradisi è davvero il monumento che non solo a me appare; ad esempio per Giorgio Ficara – sullo scorso Tuttolibri – Siti è l’esempio del «romanziere italiano contemporaneo» che «ha rinunciato alla continuità con se stesso, con la sua stessa letterarietà e i suoi fondamenti». C’è da scommettere che Siti sarebbe d’accordo, facendosene anzi un titolo di merito. (Ma il tramonto «scenografico» citato a suo carico da Ficara non è che uno dei «colori da videogioco» del paesaggio di borgata. Un esempio dell’infallibile consapevolezza di Siti dell’inautenticità da lui rappresentata; una marca del suo stile, dunque.)
Della sullodata trilogia Il contagio è insieme la continuazione e l’abiura. Se lì la lente era sulla «sperimentalità» di un io ingrandito sino all’iperbole – la più sottile delle finzioni – qui le prime centosessanta pagine stordiscono con una narrazione tutta in terza persona, pressoché depurata da digressioni «saggistiche» e autobiografiche. L’invasivo io della trilogia è ridotto a figura sullo sfondo, comparsa fra le innumerevoli che formicolano parossisticamente sulla tela: è «il professore», per formazione e milieu estraneo all’ambiente in cui s’è voluto immergere – se l’è voluto anzi «inoculare», sperimentalmente esponendosi al «contagio», appunto – per amore del culturista Marcello, già memorabile deuteragonista di Troppi paradisi. Mentre lui, il «professore», è presentato «astratto nella sua metafisica», la realtà descritta – la plaga mucillaginosa, per dirla con l’Istat, di un’umanità schiava del consumismo mediatico sino alla tossicodipendenza – è tutta e spietatamente fisica: senza i piani ulteriori, filosofici, ideologici, persino religiosi, che connotavano la trilogia. Rispetto a quell’espressionistica conduzione tutta «in soggettiva», non c’è dubbio che questa sia pure esasperata oggettività retroceda a una cifra naturalistica. Naturalistica è del resto pure la struttura della prima parte, che usa – come baricentro, batisfera in questi orizzontali Sargassi umani – uno stabile sito nell’immaginaria Via Vermeer, dei cui abitanti si narrano appunto le vicende. Con un doppio omaggio, dunque: allo Zola più entomologico, quello di Pot-Bouille (del comportamento dei borgatari si dice che è più della «colonia» che non dell’«individuo») e all’«elogio del quotidiano», per dirla con Todorov, del grande descrittore fiammingo.
La seconda parte, per fortuna, scompiglia le carte: oltre a due veri e propri saggi, sull’antropologia delle borgate e sul significato simbolico della cocaina, s’incastonano altri materiali spuri che fanno esplodere la struttura naturalistica riammettendo anche, a sorpresa e non senza squilibri, la scrittura in prima persona: ora sentimentalmente survoltata al resoconto accorato di tutti i disinganni patiti. Soprattutto c’è l’episodio vertice del libro, Viaggio in Olimpo, che finalmente si concentra su un personaggio, il piccolo spacciatore Mauro, narrandone l’abortita educazione sentimentale e culturale (una specie di Martin Eden incompiuto, che scaraventa sulla borghesia intellettuale di sinistra tutta l’acrimonia di una plebe di destra finalmente libera di compiacersi tale: «Vi rendete conto che non fate altro che proibire?… non l’avete ancora capito che la gente vuol partecipare allo schifo?»). È la chiave del libro: che lo sottrae allo schematismo sociologistico (a Siti una volta diagnosticato da Daniele Giglioli) nonché al partito preso «realistico».
La formula magica di Troppi paradisi, che gli ha attirato anche non pochi avversari, era una sorta di epochè ideologica e morale: sul fango dell’umanità post-reale non ci si permettevano giudizi di sorta. Non che ora questi risuonino, per carità; ma la desolazione amarissima – di una sinistra sconfitta e schiava di una «volontà» che non trova più corrispondenza nel reale, di una destra vittoriosa ma non meno schiava di una realtà priva d’«intenzionalità» – qui davvero non ammette riscatto. Non è solo il «paesaggio», questa «poltiglia» che «non smette di arrendersi» (come Siti una volta definisce la «sua» borgata): siamo tutti noi. Non solo, si capisce, nella città che ha visto la resistibile ascesa del Sindaco-Duce. (Andrea Cortellessa, Tuttolibri – La Stampa)

Da questo romanzo l’omonimo film di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, con Vincenzo Salemme nel ruolo del professore gay (alter ego di Walter Siti) innamorato di un gigolò (interpretato da Vinicio Marchioni).

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