Varie
“Disincantato, ironico, brillante. Se la nostra bombardata capacità visiva può passar oltre allo scoglio di due ore e 23 minuti di pellicola, Racconto di Natale può regalare un gradevole e schietto quadro di svariate e bizzarre umanità. Film presentato in concorso allo scorso Festival di Cannes, dal 5 dicembre nelle sale italiane, porta la firma di Arnaud Desplechin, che insieme a Emmanuel Bourdieu è autore anche della sceneggiatura scoppiettante e teatrale. Un esempio? “Mai agire al di là della propria capacità di rimediare”. La perla di cinismo non può essere che di Henry, la pecora nera della famiglia Vuillard, interpretato da Mathieu Amalric, con il suo consueto sguardo da folletto del male (appena visto in Quantum of Solace). All’ennesima canagliata combinata, sua sorella Elizabeth (Anne Consigny) lo ha bandito dalla famiglia e per sei anni tutti hanno vissuto felici e scontenti senza di lui, spaccando il già minato e improbabile equilibrio famigliare. Ma quando Junon (Catherine Deneuve), l’aspra capofamiglia che i figli preferiscono chiamare per nome piuttosto che “mamma”, apprende di avere lo stesso tipo di leucemia che circa quarant’anni prima aveva ucciso il primogenito Joseph, tutti si riuniscono per il Natale nella casa di Roubaix. Vengono tutti, anche il figlio minore e preferito Ivan (Melvil Poupaud) con l’odiata moglie Sylvia (Chiara Mastroianni), anche il nipote matto Paul (Emile Berling), anche l’amante lesbica della suocera defunta, e anche Henry, con la nuova fiamma Faunia (Emmanuelle Devos).” (Simona Santoni, Panorama)
“Con ‘Un conte de Noël’ di Arnaud Desplechin sbarca sulla Croisette l’erede più convinto del cinema alla nouvelle vague, fatto di esplorazione dei sentimenti, complicità con gli attori, riprese dal vero e uno stile di regia che procede come una composizione jazz: apparentemente spontaneo e zigzagante, in realtà controllatissimo e avvolgente. Come spesso nei suoi film, anche qui si mescola vita e morte (…) L’atmosfera gioiosa delle feste stempera le tensioni sotterranee, i risentimenti si intrecciano con gli amori, lungo un percorso che a volte sorprende per la durezza degli scontri oppure incanta per l’ironia con cui sono superati. Desplechin muove i fili di questo teatro con sensibilità e leggerezza, riuscendo a dare una forma sopportabile anche al confronto con la morte e il dolore, obbedendo a un idea di cinema che non vuole confrontarsi col mondo ma solo con i sentimenti privati. Un film che forse non conquisterà l’impegnato presidente della giuria Sean Penn, ma che ha fascino e grazia da vendere.” (Paolo Mereghetti, ‘Corriere della Sera’, 17 maggio 2008)
“Troppo francese, dicono gli antipatizzanti. Cioè troppo strambo, colto e disinvolto insieme. Eppure è raro, nel cinema di oggi, trovare un senso così tumultuoso della vita e dei suoi doppifondi.” (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 17 maggio 2008)
“‘Un conte de Noel’ si è rivelato un tipico prodotto da festival, un melodramma disinvoltamente ispirato a Bergman, la versione per immagini di una terapia d’autocoscienza di gruppo affidata a interpreti bravi, ma troppo tesi a dimostrare di esserlo. Il regista Desplechin si concentra sui casi dei signori Vuillard della buona borghesia di Roubaix, riunitisi per festeggiare l’ennesimo Natale: (…) Malattie genetiche, trapianti di midollo osseo, figli indesiderati e nuore o generi disorientati (tra cui si distinguono Mathieu Amalric, Emmanuelle Devos e Chiara Mastroianni), lutti inespressi, bancarotte e chi più ne ha più ne metta trasformano la rimpatriata in una resa dei conti che farebbe disperare Freud e Jung. Col bel risultato di comunicare, al posto di una chirurgica chiarezza di sentimenti, il solito sentore di pantomima.” (Valerio Caprara, ‘Il Mattino’, 17 maggio 2008)
“Il tempo passa per tutti, soprattutto per monsieur Desplechin che, nonostante non abbia raggiunto i cinquanta, porta in concorso un film-summa filosofica sulla necessità della morte per rifondare la vita. (…) Per chi ama il cinema francese, un’apoteosi di raffinatezze attorial-letterarie, circo di primedonne dalle pungentissime dialettiche. Si contendono il trofeo tutti i nomi del bon-cine francese: oltre alla Deneuve, l’immancabile Emmanuelle Devos, Jean-Paul Rossillon, Mathieu Amalric, Hippolyte Girardot eccetera eccetera. Per chi invece detesta il cinema francese, due ore e trenta di autentica tortura, non priva di perverso fascino masochista. Noi siamo da queste parti.” (Roberta Ronconi, ‘Liberazione’, 17 maggio 2008)
“Questo Natale va passato a Roubaix, in casa Vuillard. Angosce, rancori, premure si incrociano e accavallano sinuosamente tra le pieghe del carsico ‘Racconto di Natale’ a firma Arnaud Desplechin. Pretesto narrativo più vecchio del mondo: la famiglia unita per il pranzo della vigilia. (…) ‘Racconto di Natale’ s’iscrive come deviazione mai scontata in un panorama di tragedie familiari spesso patetiche. Desplechin non vuole rassicurare nessuno, non cerca lieti fini e buone novelle. La sua messa in scena è delicato scavo e riemersione continua di senso, flusso rigoglioso di immagini libere da lacci formali, accostamenti di stile e abbattimento dei tempi tradizionali dell’inquadratura. Ogni tanto perfino i protagonisti parlano guardando in macchina, raccontando snodi critici del testo, quasi evocando modalità shakespeariane. Un’eco classica che dona equilibrio di scrittura e pari dignità tra protagonisti e presunte comparse. La colonna sonora mescola cenni di classica, soul di Otis Redding e moderno hip-hop. E a quella tavola mica tanto imbandita, tra quelle stanze in cui si sfiorano liberamente corpi e anime, si ritrovano brandelli di vita talmente universali da versare sinceramente una lacrima. Amalric nell’interpretare il suo autolesionista e istrionico Henri è la vera valvola di sfogo per una famiglia non più contrita e finalmente libera dai fantasmi del passato. Due ore e trenta di durata che paiono dieci minuti.” (Davide Turrini, ‘Liberazione’, 5 dicembre 2008)
“Se il ‘film corale’ va fin troppo di moda, ‘Un racconto di Natale’ lo è in maniera tutt’altro che usuale: le referenza, piuttosto, si potrebbero cercare in Bergman o nel Wes Anderson dei ‘Tennenbaum’. Desplechin moltiplica i punti di vista e spezza la linearità del racconto, rivelandoci i fatti un po’ alla volta. Alla fine i conflitti tendono a comporsi in una serenità inaspettata, catartica e – tutto sommato – natalizia.” (Roberto Nepoti, ‘la Repubblica’, 5 dicembre 2008)
“Lungo oltre due ore e mezza, con l’ambizione di catturare il mondo, il film ben fatto e consolatorio interpretato da Catherine Deneuve, da sua figlia Chiara e da suo genero, da molti altri attori, con una bravura calda e partecipe. E’ forse la prima volta in cui la malattia non appare nel film come un evento unico e folgorante, ma come una componente della vita.” (Lietta Tornabuoni, ‘La Stampa’, 5 dicembre 2008)
“Amaud Desplechin è un narratore radicale che sovraccarica le sue configurazioni spaziali e temporali di segni espliciti, legami segreti e angoscianti vuoti. Attraverso questa tecnica idraulica di pittura vivente richiama dentro lo schermo voci e immagini dal fuori campo per svuotare, riempire o contestare le sue forme. E come se il suo cinema ci mettesse davanti al naso le cose della vita che spesso fuggiamo, invitandoci, per una volta, in sala buia, a un gesto di coraggio e responsabilità, invece che d’evasione. Questa volta è, oltretutto, sostenuto da una ritmica speciale, cioè dalle musiche inebrianti e inquietanti di Grégoire Hetzel, che spesso invade come un virus, copre del tutto ma raddoppia l’effetto armonico e pulsionale di un tessuto visuale spesso e complesso. Insomma chi non ama questo film ha qualcosa da nascondere di brutto, ha paura del lupo cattivo che ulula nel sottoscala … E come se Desplechin strumentalizzasse la tecnica della confessione cattolica – del luogo buio dove la coscienza si agita nel liquido amniotico della biopolitica senza rete, in cerca di requie – per rafforzare quegli ammonimenti morali tipici dei pastori protestanti, celati dietro l’evasione hollywoodiana. Fabbricando una differente classicità.” (Roberto Silvestri, ‘Il Manifesto’, 5 dicembre 2008)
“Arnaud Desplechin gioca con la materia tipica del melò senza abbandonarsi al pianto, conservando qualche vezzo cinefilo e il ciglio asciutto che lo porta ad una cinica osservazione delle cose della vita, anche agiata. Il regista, col suo attore feticcio Matieu Amalric, tiene narrativamente in pugno amici e parenti nell’identikit di una famiglia allargata bisognosa urgente di una trasfusione compatibile. Ci sono scazzottate e confessioni, silenzi e nostalgie, ma con la padronanza fredda di chi ha già fatto i conti di un prisma psicologico variabile, inedito, in cui gli attori sono tutti in sintonia, bravi, meno la Deneuve che è bravissima.” (Maurizio Porro, ‘Corriere della Sera’, 5 dicembre 2008)
Profondo conflitto fra i componenti di una (apparente) famiglia borghese. I temi dell’esclusione, del lutto e della sofferenza riempiono i 150 minuti di questo film francese. Appaiono molti personaggi, ognuno dei quali fornisce una sfumatura diversa, niente lasciato al caso. Il regista non ci risparmia nemmeno i particolari di una malattia implacabile. Ospedali, lunghi e spessi aghi, sangue, midollo spinale.. Anche qui, come nel suo precendente film, è presente la malattia mentale. L’odio tiene unita questa famiglia, ma sul finale si affaccia un po’ di “sano” amore, sebbene sia un sentimento quasi rubato.. Da vedere assolutamente per i cinefili veri e amanti del cinema francese.