Il lungo giorno finisce

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Il lungo giorno finisce

Racconta, tra il 1955 e il ’56, un anno nella vita dell’undicenne Bud (Leight McCormack), sospeso tra l’amore per la madre e i primi turbamenti omosessuali, il fascino del cinema, il misticismo delle cerimonie religiose, la crudeltà della scuola. La narrazione non procede in maniera lineare ma piuttosto per accumulo di immagini e soprattutto di suoni, dove esperienza e fantasia si mescolano in maniera indissolubile. Solo per cinefili e appassionati della ricerca figurativa.

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“Ho voluto ritrovare la mia infanzia, a Liverpool tra gli otto e gli undici anni. Sono stati gli anni più belli della mia vita, di incantevole felicità e pienezza. Un vero paradiso, cominciato con la morte di mio padre. Io lo odiavo perché era un uomo brutale che mi terrorizzava e pestava mia madre davanti a me che così piccolo non potevo difenderla. Il periodo senza mia padre stato per me meraviglioso, anche se la mia famiglia era povera, priva di tutto, ma c’era questo grande senso di amore e di continua scoperta. Poi però anche il paradiso è finito: in un giorno qualunque dei miei undici anni, quando su un’impalcatura di fronte a casa nostra ho visto un giovane muratore a torso nudo. Ho provato un’emozione violenta che mi ha fatto precipitare nell’orrore…”
Già nei due film precedenti Terence Davies aveva rivelato il suo grande intimismo, la sua struggente composizione di forme, colori e ricordi. In The Long Day Closes, passato purtroppo a Cannes senza alcun riconoscimento, egli arriva alla perfetta astrazione di qualsiasi meccanismo narrativo: non una storia, non un racconto che si evolve, solo le suggestioni delle immagini e delle voci della sua infanzia nell’Inghilterra degli anni 50. Una nostalgia che diviene sensibilità estetica in un’opera radicalmente sincera ed evocativa. Il peso della sua condizione di omosessuale (portato alla disperazione e all’angoscia della morte in Trilogia, 1973-1983) si è qui placato in una stagnante perfezione stilistica che, riprendendo le atmosfere domestiche, la coralità sonora di Voci lontane, sempre presenti (1988), sublima nel rigenerarsi della memoria un passato che non sono solo dolci ricordi personali, ma frammenti veraci di una storia sociale su cui forgiare e rivitalizzare le amarezze del presente.
“Gli anni che faccio rivivere in The Long Day Closes sono stati davvero dolci ed indimenticabili. Ciò che resta nella memoria, ciò che la evoca per me sono i suoni, le voci, che nel film hanno un ruolo predominante. I luoghi canonici di allora erano la casa, il quartiere, la scuola, la chiesa. In quei giorni avevamo il tempo per tutto questo, per stare insieme, e poi per divertisi, per cantare, per andare al cinema. Era un mondo diverso che aveva il senso della comunità e della decenza, che non era né materialista né rapace come adesso”

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