Il contagio

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Il contagio

Partiamo dalla pagina scritta di Walter Siti che non è di per sé traducibile in immagini cinematografiche, così carnale, piena di umori fisici e con costanti rimandi ad Altro e Altrove, se non la si ricrea del tutto probabilmente a scapito di una narrazione fluida e fruibile. Non ci si aspettava questo da Matteo Botrugno e Daniele Coluccini di cui nel 2010 avevamo apprezzato qui a Venezia “Et in terra pax”. Più che a questa fedeltà alla parola e allo stile di Siti la curiosità e le aspettative erano per come avrebbero trattato la materia raccontata nel romanzo Il contagio, le oscure vicende dei tanti piccoli e vitali personaggi presenti, intrecciate tra loro in un continuum quasi inestricabile, per come avrebbero reso il degrado umano e sociale dell’attuale periferia romana, figlia e sorella di quella stessa ritratta dal Pasolini degli anni ’50. Siamo usciti dalla sala in parte delusi e in parte convinti dalle loro scelte. Ci ha convinti la soluzione di comporre il film dividendolo in due netti e distinti capitoli, il primo assolutamente corale dedicato alla tragica commedia umana di un condominio/alveare del quartiere Laurentino (il film si apre e si chiude proprio con l’immagine di questo frammento di universo dalle forme geometriche, un po’ Colosseo e un po’ razionalismo fascista), mentre il secondo capitolo viene giocato come se fosse un lungo monologo teatrale, tutto centrato sulla figura già precedentemente tratteggiata di Mauro, lo spacciatore ambizioso che tenta la scalata al benessere sociale stando dentro le fila della malavita di quartiere, una delinquenza che nel volgere di pochi anni si è andata trasformando da criminalità di usura ed estorsioni di borgata a fenomeno mafioso con agganci e radici nella politica municipale e nazionale. A scandire ulteriormente la divisione delle due parti, a inizio-metà-fine, sono stati inseriti alcuni passaggi essenziali in voce off che bene dichiarano l’origine letteraria delle vicende. E’ la voce (in buona parte autobiografica) dell’autore che nel narrare il degrado e la vitalità di questo angolo di mondo, racconta anche di sé stesso e del suo rapporto mercenario con l’ex-culturista Marcello. La sua posizione di intellettuale e di esponente della borghesia lo pone al di sopra e al di fuori dei traffici illegali e delle meschinità di tutti i personaggi di cui racconta la spicciola vita quotidiana, fatta di piccole invidie e intromissioni nella vita dei vicini di casa, di illegalità di assegnazione negli alloggi popolari, di spaccio e consumo di cocaina, di debiti non pagati, di modeste rapine appena fuori dal confine del quartiere. Tutti i personaggi, davvero tutti tranne lo scrittore, sono accomunati dall’identica fame di denaro, dal desiderio di possesso di beni materiali, una fame e un desiderio che offuscano e soffocano qualsivoglia tipo di sentimenti reciproci e portano a depressione e alienazione, per non dire delle situazioni di illegalità. I legami matrimoniali ne sono totalmente corrotti, così come le amicizie o gli stessi legami parentali. Nessun diamante, da tale letame non nascono fiori, solo aridità d’animo, infelicità, incapacità e impossibilità di riscatto. Per raccontare di queste realtà i registi fanno sfoggio di un ampio ventaglio di stili, attenti ora a giocare nella stessa ripresa immagini a fuoco e fuori-fuoco per indicare l’importanza degli elementi da evidenziare, ora ricorrendo a primissimi piani come a campi lunghissimi. E proprio in questa esibizione di capacità tecnica di controllo della composizione e della concatenazione tra le immagini sta il limite più forte del film incerto tra un’unità stilistica e l’organicità dell’insieme. Difficile per esempio giustificare il bel rallenty della lapidazione di Marcello con il taglio documentaristico delle riprese dei paesaggi. Tant’è che nel pre-finale nel lunghissimo piano-sequenza di Mauro alla festa di raccolta fondi, momento in cui si concentra la parte fondamentale sia dei suoi eventi esistenziali sia degli snodi del suo sviluppo psicologico, si è portati a porre più attenzione a come i registi sono riusciti a superare le difficoltà tecniche delle riprese che non ai veri drammi del loro protagonista. L’attore che ne è al centro costituisce la vera sorpresa di questo film: Marcello Tesei si farà ricordare a lungo. Sia per la pregnanza della recitazione, ma anche per la virilità che riesce a esprimere da ogni suo poro; lo si era visto in varie serie televisive in uniforme, ma “Il contagio” potrebbe essere il vero trampolino per una sua lunga permanenza sul grande schermo. Di Vinicio Marchioni, protagonista nella prima metà del film, si conoscevano già da tempo le alte qualità recitative, ma qui oltre alle contraddizioni (anche sessuali) del suo personaggio dimostra ancora una volta la sua generosità quando si mostra al pubblico anche nella nudità delle sue fattezze (non assolute come quelle teatrali del suo vecchio spettacolo “Kouros”), ma pur sempre apprezzabili. Non è impresa semplice dar forma al complesso universo di Marcello, marchettaro atletico, bramoso di riscatto e considerazione sociale, cocainomane e sbandato, sposato da sempre con la fragile Chiara, per il quale non fa differenza vendere il proprio corpo o tentare il colpo grosso anche alle spalle degli amici più stretti. Marchioni non solo ne fa un ritratto credibile, lo scolpisce nella carne, ne restituisce l’anima e i sentimenti complessi e contrastati. A sua volta Vincenzo Salemme disegna con grande precisione l’umanità partecipe e consapevole dello scrittore gay, lo sguardo che vive, raccoglie e restituisce la vita della borgata, nel medesimo tempo “in and out”. Si fa apprezzare per la misura con cui lo ritrae anche nelle scene di sesso (brevi e quasi caste). Il suo è un ruolo quasi marginale, ma essenziale, figura solo in una manciata di sequenze, ma qui Salemme conferma il famoso detto secondo cui non esistono piccoli ruoli ma solo piccoli attori. D’altra parte tutti gli interpreti sono di alto livello, da Anna Foglietta come insicura moglie di Marcello a Giulia Bevilacqua come depressa consorte di Mauro, ma davvero tutti gli attori andrebbero citati. Con un unico limite, che è anche indice del valore della loro recitazione: forse sarebbe bene che il film uscisse sottotitolato, perché il dialetto romano che restituiscono è spesso così mimetico da risultare al limite della comprensione. (Sandro Avanzo)

Questo film al box office

Settimana Posizione Incassi week end Media per sala
dal 05/10/2017 al 08/10/2017 20 33.198 1.070
dal 28/09/2017 al 01/10/2017 15 76.555 695

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