Trasposizione cinematografica firmata da Barry Levinson del romanzo L’UMILIAZIONE di Philip Roth. Il protagonista Al Pacino si lascia sedurre da un personaggio lesbico tra i più memorabili degli ultimi anni. Lui è un attore non più giovanissimo, star sia di Broadway che del cinema, in crisi di identità (cos’è più vero nella vita? è il quotidiano o ciò che si recita sulla scena?) che in un momento di assoluto smarrimento si butta (o cade) nella buca dell’orchestra finendo poi in una clinica di recupero. Lei è la ex-bambina, figlia di una compagna di palcoscenico al tempo degli esordi, di cui è stato il padrino in tempi lontani. Il suo amore per l’uomo non si è mai spento dall’età di 8 anni nonostante i 6 lustri e più che da sempre li separano. Nel frattempo lei ha avuto molte storie amorose con molte donne, usando il suo fascino nei loro confronti anche per progredire nella carriera. Ora, superata la trentina, si ripresenta nella vita dell’attore per trovare un punto stabile in una vita balorda. Per lui, che non si è mai concesso all’amore, è la giovinezza che torna a bussare alle porte e che gli permetterebbe di recuperare la fiducia in sé stesso sia come attore che come uomo. Spende patrimoni e va quasi in rovina per la ragazza, per lei subisce umiliazioni di ogni tipo. Accetta di subire lo stolkeraggio della sua ultima ex (una accanita Kyra Sedgwick, transfuga dal serial THE CLOSER), non scaccia di casa la sua prima donna che ora ha affrontato un cambio di sesso FtoM, accetta i tradimenti con nuove compagne occasionali. Le situazioni e i dialoghi paradossali abbondano. “Non sei mai stata con un uomo?” “Non negli ultimi 16 anni” “Io non sono mai stato prima con una lesbica” “Ma forse non lo sapevi!”; o durante la cena a tre con il trans: “Vorrei trovare un posto in questa nuova situazione tra voi… ora che ti piacciono gli uomini e che io sono diventata un uomo”. Ma i momenti più bizzarri sono in assoluto quelli tra l’attempato attore e una paziente conosciuta in clinica che vorrebbe assoldarlo come killer del marito in quanto pedofilo molestatore della figlioletta. Pacino è magistrale nel rendere il suo imbarazzo in queste scene che punteggiano tutta la vicenda come un tormentone, ma più in generale va applaudito per un’interpretazione altissima in tutto il film. Barry Levinson gli offre una partitura in cui sfoggiare ogni gamma di sfumature dal comico al drammatico (non a caso i portafortuna del protagonista sono le due maschere greche della commedia e della tragedia), e Pacino questa partitura la usa per scatenarsi in ogni gamma di espressioni: ironiche, attonite, stupefatte, sfasciate, catatoniche, incantate… per non dire del modo in cui sa usare una voce capace di mezzi fiati spezzati a singhiozzo come di furori altrettanto inauditi (peccato che tanto grande bellezza sia destinata ad andare perduta nel doppiaggio italiano!).
Da grande attore qual è lo fa senza esibizionismi, senza gigioneggiare, con consapevole generosità verso il suo personaggio e verso gli spettori. E arriva anche a regalare il suo status di mito cinematografico al regista del film, quando gli permette di usare in modo molto ironico una sua celebre foto degli anni ’70, ai tempi di SERPICO e di QUEL POMERIGGIO DI UN GIORNO DA CANI. Greta Gerwig, nel ruolo dell’immatura lesbica, egoista e irresponsabile, riesce a reggere il confronto con tanta mostruosa bravura. La regia sa dosare e tenere sotto controllo l’intreccio di grottesco e drammatico, concedendosi parentesi di assoluta comicità come la parata dei gadget sessuali usati dalla coppia in crisi di piacere per impotenza maschile senile. Una scena che da sola vale il costo del biglietto. Per far capire come si chiude il film (perché è giusto darne un accenno) riveliamo che è di nuovo in teatro, dolce-amaro come conviene all’intera vicenda, soluzione aperta a molte soluzioni. (Sandro Avanzo)
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