Il funerale delle rose

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Il funerale delle rose

Uno dei film preferiti da Stanley Kubrick (si sente la sua influenza in Clockwork Orange) e probabilmente anche uno dei migliori film mai fatti. Realizzato nel 1969 il film è tanto fresco e straordinario quanto assolutamente innovativo per quei tempi. Ambientato in un ambiente “gay” questo è un film su delle persone, su quello che fanno e che sentono, il fatto che siano gay appare irrilevante. Sono persone vere in un mondo vero che sembrano agire oggi anzichè nel tempo in cui il film venne fatto. Grande merito alla splendida fotografia in bianco e nero, che usando le tecniche disponibili in quegli anni, ci regala un film senza tempo e luogo, sempre attuale. Interviste al cast, inserite nel mezzo delle scene, cambi di tono e stile, improvvisi scoppi di violenza, il tutto miscelato per raccontare una storia universale di ricerca delle identità. Un film imperdibile per gli amanti del cinema. (Imdb)

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Un commento

  1. bowser

    Ci sono troppe cose in questo film per poterlo descrivere. È una descrizione sfaccettata dell’uomo (inteso come persona umana, non per forza uomo) nella società contemporanea. Stupendo il monologo sul concetto delle maschere che indossiamo ogni giorno per confrontarci con gli altri. Ottima anche la fotografia.

    È tra i miei preferiti in assoluto. Sono contento di averlo trovato recensito! Ho scoperto questo sito adesso, ma credo che lo frequenterò spesso!

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Edipo, armato di cerone e ombretto, o Elettra a tutti i costi?
La prima sequenza ci mostra l’attore di culto conosciuto semplicemente come Peter in un candido e romantico limbo, che inaspettatamente preparerà lo spettatore all’abissale inferno, e tra le braccia di un uomo più maturo, Gureko, il proprietario dell’esclusivo club del distretto di Shinjuku. Anche Eddie è uno dei travestiti che lavorano al Genet, in perenne competizione con la rivale Leda, l’attuale Madam del club, primadonna e furiosa perché il proprietario ha promesso il suo posto alla nuova amante.
Si susseguono le notti e i giorni tra sesso e droga, mentre i ricordi di Eddie investono la sua mente e i sensi. La scomparsa del padre quando era ancora troppo piccolo non è mai viva e chiara nei suoi flashback, che invece mostrano la madre, mentre brucia la faccia del compagno nel ritratto di famiglia. Questa fotografia, divenuta per anni il suo prezioso feticcio, sembra essere l’unico oggetto sopravvissuto al suo trascorso così incerto.
Avanzando tra i solchi di questa mente, così allucinata e vertiginosa, avvistiamo un passato sempre più violento e strano. Ma la morte della madre per mano sua, ancora giovanissimo, non sembra essere il momento peggiore.
Quando Eddie, dopo il suicidio dell’ossessiva e gelosa Madam, scopre che Gureko, di cui oramai ha conquistato il cuore, e con il quale ha appena trascorso una notte di psichedelico desiderio, ha riconosciuto l’immagine familiare erosa dalla follia, e che in realtà è suo padre, si compie la “tragedia edipica” con la quale hanno voluto insistentemente catalogare quest’oggetto d’arte, che uscendo nelle sale nel 1969 fece così tanto urlare allo scandalo. E qui siamo al cospetto proprio dell’Avanguardia o dell’esistere “proprio” dell’arte contemporanea.
Alla fine degli anni cinquanta e sessanta il Giappone si preparava ad essere travolto da quella corrente rivoluzionaria che portava il nome di “Nuberu bagu” o, potendolo trascrivere in tal modo, per numerose ed esplicite ragioni, ‘Nouvelle Vague’ giapponese. In quel contesto, Toshio Matsumoto crea un assoluto miracolo espressivo e linguistico. Una pellicola realizzata con lo stile documentaristico caro a Godard (le interviste agli attori, i set, i cartelli censori della Commissione Etica del Cinema, hippies e polizia, soggettive casuali, e saluti finali) o visionario e surreale come Un Cane Andaluso, e perché non tirare in ballo anche Jonas Mekas, Jack Smith e lo stesso Jean Genet? Una pellicola dal fortissimo o fastidiosissimo impatto drammatico, troppo carica di fluidi corporei per l’epoca in cui venne concepita da quell’instancabile e prolifico artista giapponese, che volle persino provocare l’ilarità nello spettatore, come dinnanzi a quella comicità grossolana che solo uno storicizzato Charlie Chaplin può ricordare. (Daniele Del Mare)

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