Black Field

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Black Field

Nel 1654 la Grecia è sotto l’occupazione dell’Impero Turco Ottomano. Un Giannizzero (un guerriero greco tolto con forza dalla sua famiglia cristiana quando era ancora bambino per servire l’armata Turca) arriva gravemente ferito in un remoto monastero cristiano femminile. Viene nutrito da Anthi, una giovane suora greca votata al silenzio che s’innamora del nuovo arrivato. Sempre più presa dal Giannizzero e timorosa che questi possa in ogni momento essere catturato, Anthi progetta una fuga nella vicina foresta, in cerca di pace, libera da ogni costrizione sociale. Tuttavia Anthi nasconde un segreto che potrebbe minacciare la sua crescente amicizia con il Giannizzero… Un film dal ritmo coinvolgente e ipnotico che seduce gli occhi con una splendida fotografia che ci immerge in poeteci paesaggi naturali. Una storia d’amore che incrocia i generi, due persone che devono fare i conti con la loro identità, ispirato ad una storia vera che trascende ogni temporalità, religione e sessualità.

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La premessa di Black Field è piuttosto semplice. Il film racconta un amore impossibile e lo fa in modo assai poco convenzionale. Questo amore nasce tra un soldato ferito, accolto in un convento, e una suora molto particolare con la quale finisce per scappare: da quel momento in poi il film vira verso il tragico.

Affinché la svolta drammatica degli eventi fosse plausibile, il film doveva svolgersi nel XVII secolo, una sfida da affrontare con un piccolo budget. Ma il risultato ottenuto da Vardis Marinakis dimostra che il cinema storico, per funzionare, non ha bisogno di puntare tutto sulla sontuosità dei costumi.

Ultimamente, il cinema in costume non è molto popolare presso i produttori greci, e non solo perché è dispendioso. Qualche decennio fa, quando il cinema greco era fiorente e il mercato poteva sostenere una produzione o due, la grande domanda di ricostruzioni di glorie e declini storici ha esaurito il genere, tematicamente ed esteticamente.

Ed ecco che, mentre il cinema greco indipendente sembra ritrovare vigore, grazie ad autori che hanno qualcosa da dire e l’eloquenza per farlo, un giovane regista arriva con un progetto che avrebbe potuto, in altre circostanze, rappresentare un rischio troppo grande perché qualcuno lo accettasse.

“Gli aspetti concreti della ricostruzione storica non mi spaventavano”, racconta Marinakis. “Ma questo non è un film storico, l’epoca scelta fa piuttosto da sfondo a un racconto archetipico basato sui personaggi, che si concentra sulle persone, i sentimenti, le sensazioni e le immagini”. Ma è proprio questo contesto e le immagini che permette di creare a rendere il film ancora più affascinante.

Le scenografie di Yorgos Georgiou, superbamente filmate dal direttore della fotografia britannico Marcus Waterloo, diventano esse stesse un personaggio e conferiscono alla storia di Marinakis un’atmosfera di mistero e di suspense animata dal presentimento di una tragedia imminente. Con i suoi grigi e i suoi seppia, Waterloo rappresenta l’esistenza spoglia, afflitta e solitaria delle suore in un labirinto di corridoi del convento, dove Marinakis dondola la sua cinepresa con notevole eleganza e il senso del ritmo di un regista esperto in coreografia dell’immagine.

La prima metà del film, centrata esclusivamente sulla vita in convento, è uno studio inquietante e al contempo dignitoso degli effetti di un tempo e di un luogo che impediscono di esprimere la propria individualità. Le suore di Marinakis si muovono tra le ombre di una città fantasma in preda al dolore e alla disperazione, come figure isolate in un mondo che le costringe a reprimere il senso della propria identità.

Nel secondo atto, Marinakis porta i suoi due protagonisti fuori le mura di pietra del convento (che sono al tempo stesso la loro prigione e il loro rifugio dalla realtà esterna, molto più dura), verso la natura e la sua vastità. I colori caldi scelti e i paesaggi idilliaci filmati a Zagorohoria rinviano a un Eden inviolato, cosa che permette a Marinakis di ritrovare i temi che aveva a cuore nei suoi cortometraggi.

Gli effetti rasserenanti della natura portano i personaggi a riscoprire se stessi e a scoprirsi a vicenda, con uno spirito giocoso quasi animale. La spensieratezza dell’ambiente circostante li trasforma e li libera dalle regole e dagli stereotipi che erano stati loro imposti nella vita precedente. Si arriva alla liberazione, forzata ma efficace sul piano simbolico, che Marinakis aveva preparato per loro.

Alla fine dei conti, Black Field è un’opera estremamente ben girata e ben diretta ma un po’ disomogenea, il cui effetto è sminuito dalla mancanza di chiarezza della sceneggiatura riguardo ai suoi obiettivi e dalla liquidità della narrazione. Il film resta tuttavia un esercizio di stile bello e penetrante che potrebbe funzionare sul mercato del cinema d’essai e nei festival, e che merita assolutamente di non passare inosservato. (Cineuropa.org)

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