Au nom du fils

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Au nom du fils

Stravagante commedia nera, Au nom du fils (“Nel nome del figlio”) di Vincent Lannoo in cui un’irreprensibile devota cattolica, Elisabeth (Astrid Whetnall, piuttosto brava), conduce una trasmissione radiofonica sulla salvezza delle anime insieme al corpulento padre Achille (l’attore liegese di origine italiana Achille Ridolfi). Quando il biondo figlioletto si toglie la vita per la reazione respingente della mamma dopo averle telefonato in diretta rivelando la sua relazione proprio col sacerdote – attenzione: non si capisce subito se si tratta di atroce abuso o di un sentimento corrisposto – lei, già traumatizzata per la morte suicida del marito appassionato di simulazioni belliche, diventa una vendicatrice sanguinaria facendo fuori prima un vescovo e poi una serie di prelati coinvolti in casi di pedofilia. Certo, non si può prendere troppo sul serio questa Mamma Vendetta sul crinale del pulp – ma Lannoo mantiene uno stile orientato verso un grottesco surreale che ricorda il cinema dell’olandese Alex Van Warmerdam (Borgman) – eppure ha il pregio di riaccendere i riflettori sulla questione della pedofilia nel clero, quanto mai scottante: “In Belgio ci sono state 350 denuncie di casi di preti pedofili rimaste però inevase – ha spiegato Astrid Whetnall – Elizabeth è un personaggio interessante, rappresenta una crescita. Si tratta di una donna estremamente intelligente e profondamente onesta. Crede fino in fondo in quello che fa e nel proselitismo ma quando si trova a essere privata di quello che ha di più caro reagisce cercando delle risponde e si scontra contro un muro. È proprio quel muro che provoca la sua reazione estremamente violenta ma in nome di Dio. Diventa un mostro contro i mostri che vorrebbe combattere. È un grande regalo per un’attrice interpretare un ruolo così sfaccettato”. “Anche fuori dalla Chiesa esistono i casi di pedofilia – ha commentato il produttore Lionel Jadot – il problema è che in uno Stato normale questa viene punita, mentre nella Chiesa no, vieni trasferito”. (R. Schinardi, Gay.it)

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CRITICA

Prendete la speaker di una radio religiosa, una specie di Radio Maria e immaginatela nei panni di una spietata serial killer che uccide preti pedofili e otterrete Au nom du fils, secondo lungometraggio del belga Vincent Lannoo, presentato al Torino Film Festival nella sezione After Hours. E’ logico rimanere spiazzati davanti ad un assunto del genere, ma la pellicola spiega dettagliamente i motivi del profondo cambiamento che avviene nel cuore della donna. Elizabeth (Astrid Whettnall), infatti, è una signora dall’aspetto mite e la voce suadente che ogni giorno conforta gli ascoltatori della sua emittente e risponde alle domande più spinose in materia di fede. Al suo fianco c’è Padre Achille, un prete corpulento che la supporta in questa vera e propria missione sul campo. Vive a casa della donna e in poco tempo diventa un punto di riferimento per i figli più piccoli, Albert e soprattutto Jean-Charles, un quattordicenne piuttosto confuso che cerca conferme sulla propria identità sessuale giocando a fare il soldato con gli amici del padre, un’associazione di religiosi psicopatici che si allena nei boschi a uccidere il nemico islamico. Il ragazzino è in realtà attratto dagli uomini e inizia con Padre Achille una relazione. Alla morte del padre, avvenuta durante una delle folli esercitazioni, Jean-Charles confessa alla madre la verità sul suo legame con Achille, nel frattempo allontanato dalla diocesi. Davanti al mancato perdono, si toglie la vita. Per la donna inizia un incubo senza fine, alla disperata ricerca di un modo per salvare l’anima del figlio dalle fiamme dell’inferno. Cerca conforto nel vescovo a cui si rivolge per conoscere l’indirizzo di Achille, ma il porporato la tratta con freddezza, sventolando sotto il suo naso una lista di preti pedofili che protegge senza troppi ripensamenti, adducendo come motivazione la malvagità insita in ogni bambino. Elisabeth lo uccide e ruba la lista. Sa cosa fare.
Come scritto in precedenza è del tutto normale essere disorientati di fronte ad un’opera che senza mezzi termini, in maniera chiara e netta, aggredisce la Chiesa, il potere perpetrato dalle alte sfere religiose, l’omertà che regna sovrana e che rende le vittime ancora più deboli e indifese. Lannoo affronta il discorso alla sua maniera, con toni grotteschi e qualche tocco splatter, giocando spesso e volentieri sul contrasto tra quanto viene detto dai personaggi e quello che si vede, con le parole che vengono puntualmente contraddette dalle immagini. E’ la storia della ricerca di una giustizia terrena, del progressivo allontanamento dalla fede di una donna che smette di credere in un’entità sovrannaturale perché non risponde più alle sue preghiere. L’autore belga, che già in Vampires aveva toccato l’argomento, agganciandosi agli stilemi dell’horror e del mockumentary, mette alla berlina le patologie e le nefandezze non solo di un certo mondo religioso, ma in generale di tutti quei microcosmi borghesi, famiglia in testa, in cui è necessario sempre salvare le apparenze. “Accettare di non sapere è la sfida più grande, il presupposto fondamentale della fede”, dice Elisabeth ad un’ascoltatrice che le chiede consigli sul matrimonio. Credere è quindi essere ciechi. Nel complesso la commedia nera di Lannoo funziona, strappa anche qualche risata per il modo oltraggioso e amorale di rendere il problema, prendendosi i suoi rischi con coraggio, ma non riesce ad entrare sotto pelle; non scuote nel profondo, non scandalizza davvero, giocherella con lo spettatore ma non lo coinvolge. (Francesca Fiorentino, Movieplayer.it – voto 6/10)

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Una famiglia da cartolina — tutti belli, biondi, amorevoli e benestanti — una fede e una devozione verso la chiesa e i suoi ministri, un paradiso terreno sulla terra. Peccato che la soddisfatta e realizzata mamma, moglie e devota cattolica Elisabeth scopra molto presto che il giovane parroco che hanno appena ospitato in casa propria è un pedofilo incallito che non risparmia attenzioni malsane sul figlioletto biondo e bello; peccato che suo marito muoia in un incidente misterioso durante una supposta trasferta di preghiera, risultata poi organizzata in modo ben piu’ variopinto; peccato ancor peggio che il vescovo decida senza vergogna di coprire le malefatte dei suoi prelati scagliando insulti alla memoria del figlio violato appena suicidatosi. Insomma dopo il paradiso, l’ecatombe, che avvolge ogni cosa in un vertiginoso susseguirsi di vendette da parte di Elisabeth, ora piu’ che mai vendicatore determinato e arma del Signore per il trionfo della giustizia divina sulla terra. “Au nom du fils” e’ un piccolo gioiello di cinismo belga che ricorda, per spirito e sanguigna veemenza, quel “Kill me please” sulla morte assistita di qualche anno fa che tanto mi sorprese e piacque. Qui si parla di tutt’altro: la irriverente e sfrontata richiesta di aiuto di una chiesa barbarica ed approfittatrice, in mano a preti predatori insaziabili nonché corrotti corruttori, che coprono crimini vergognosi come abusi sui minori; ma non mancano pure le sette eretiche armate e razziste, nonché omofobe, pronte alla guerra per una nuova crociata contro l’infedele. Tutto ciò raccontato con folle ironia, sarcasmo e tanto buon sangue, che iniziaerà a sgorgare copioso e giustizialista soprattutto quando una mamma modello, nonché commentatrice radiifonica di una simil-radio Maria, si ritrova a perdere metà della propria famiglia felice da manuale per opera dei prelati viscidi e viziosi che la circondano. “Au nom du fils” è il film che rialza il livello di una rassegna “After hours” un po’ ordinaria e sottotono rispetto alla elevata qualità del Concorso di quest’anno. (Alan Smithee, filmtv – voto 4/5)

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“…Un altro film sicuramente particolare è Au nom du fils; presenti alla conferenza stampa l’attrice protagonista Astrid Whettnal ed il produttore Lionel Janot, per parlare con i giornalisti di questo film, decisamente scomodo in Belgio. La vicenda tratta di preti pedofili, un tema che il Belgio, in particolare, si è dovuto trovare ad affrontare negli ultimi anni.
La prima domanda è stata proprio su questo: come ha reagito il Belgio?
Hanno avuto delle difficoltà a trovare finanziatori e sopratutto alcuni permessi per girare nelle chiese. Ci sono stati molti casi di pedofilia in Belgio, legati alla chiesa. C’è stata anche un’assoluta mancanza di risposte da parte dello stato e il silenzio della chiesta. “Le reazioni del pubblico sono state tutto sommato positive, nessuno ha bruciato le sale dove è stato presentato.” Ha scherzato il produttore”Ora mi chiedo quale sarà la reazione dell’Italia ma sopratutto della Francia.”
Una domanda per l’attrice che ha dovuto affrontare una parte molto difficile: una madre, fervente cattolica la cui fede viene incrinata totalmente e reagisce in maniera violenta. In carriera avrebbe mai pensato di uccidere un vescovo in quel modo?
L’attrice ha riso e ha risposto “Bien sur no – Certamente no!”. E’ un personaggio interessante, rappresenta una crescita, una donna estremamente intelligente e onesta e crede profondamente in quello che fa. Crede nel proselitismo, ma quando si trova ad essere privata a quello che ha di più caro si scontra contro un muro; è proprio quel muro che provoca la sua reazione estremamente violenta. Diventa un mostro contro i mostri della chiesa.
Il mostro è anche una delle tematiche che il regista voleva affrontare: il tema del mostro che soggiorna in ognuno di noi, accompagnato dal tema del farsi giustizia da soli, la vendetta.
Un film che non è sicuramente un insulto alla fede, ma più che altro una critica al clero: il silenzio che circonda infatti il tema della pedofilia è il vero nodo della questione. “Anche fuori dalla chiesa esistono casi di pedofilia, il problema è che in uno stato normale questa viene punita, mentre nella chiesa no, sei trasferito”. Ha commentato il produttore.” (Silvia Cannarsa, retroonline.it)

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Enième opus de Vincent Lanno, AU NOM DU FILS condense les défauts de la filmographie du cinéaste. Si l’idée de base est savoureuse, le développement qu’il en fait est tout bonnement chancelant et s’épuise inexorablement.
L’ouverture du film est pourtant délicieuse. Une séquence en vidéo dessine les contours humoristiques et irrévérencieux de AU NOM DU FILS. Deux prêtres y appellent les fidèles à faire preuve de générosité en accueillant notamment chez eux un homme d’Eglise, en le logeant, en le nourrissant et en le blanchissant. Le ton est donné.
La scène qui suit présente l’accueil d’un prêtre – le plus jeune de la vidéo – par une famille. L’approche est alors hyper-stylisée et semble renvoyer à l’esthétique travaillée et artificielle de DESPERATE HOUSWIFES. Vincent Lanno y use de nombreux travellings et caricature à dessein un petit univers bigot.
Mère de deux garçons et épouse attentionnée, Elisabeth de la Baie (Astrid Whettnall), grenouille de bénitier dévouée, anime une émission sur les ondes de la radio paroissiale. Assistée par le prêtre qu’elle héberge, elle répand un discours tellement calotin qu’il en devient amusant. Mais si les situations sont tantôt taquines et souvent drôles, la mise en scène perd déjà tout son lustre. Certes les effets de travelling son toujours là, mais ils composent un banal champs/contre-champs dans lequel le réalisateur abuse de changements de focale. L’approche esthétique ne cesse ensuite de se redéfinir de séquence en séquence, comme s’il n’y en avait in fine aucune.
L’écriture se module elle-aussi et manque cruellement de style. Sommes-nous face à un pastiche ou un film de série B (voire Z) ? Vincent Lanno ne semble pas assumer un style qu’il esquisse pourtant. L’idée est là, la ligne narrative aussi, mais le scénario manque de cohérence (tant il touche à tout et voyage de genre en genre – comme dès lors la réalisation) et s’avère cruellement superficiel – sans que cette superficialité ne soit motrice.
Le film ressemble rapidement à une addition de scènes comme autant de sketchs reliés entre eux par un montage qui parodie les saintes-écritures. Les protagonistes évoluent sans que leur psychologie ne semble importer. Au coeur de ce dédale pourtant cousu de fil blanc, Astrid Whettnall insuffle toutefois une incroyable force au personnage qu’elle incarne. Une interprétation qui vaut le détour. (Nicolas Gilson, ungrandmoment.be)

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