The Last Time I Saw Macau

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The Last Time I Saw Macau

Film originale, quasi sperimentale, a metà tra la docu-fiction e il cinema noir classico, con protagonisti che quasi non si vedono mai in volto, con immagini bellissime che riescono a catturare l’attenzione attraverso minimi particolari. I registi sono João Pedro Rodrigues, l’autore più queer del Portogallo (ricordiamo i capolavori “O Fantasma” e “To Die Like a Man”) e il suo collaboratore Joao Rui Guerra da Mata, qui anche protagonista fuori campo, del quale sentiamo la voce che spiega: “Dopo 30 anni mi ritrovo a Macao, dove non tornavo dai tempi della mia infanzia. Più o meno una settimana fa, a Lisbona, ho ricevuto un’e-mail da un’amica che non sentivo da molto tempo. Sapevo che Candy era partita per l’Oriente, forse per il gusto dell’esotico, o alla ricerca di una vita più facile. Fatto sta che ne avevo perso le tracce. Nell’e-mail mi diceva che ancora una volta aveva incontrato gli uomini sbagliati, ma stavolta le conseguenze erano molto serie: un carissimo amico era stato assassinato durante un’innocua partita a flash ball e lei temeva di essere la prossima vittima. Io ero la sola persona di cui potesse ancora fidarsi. Mi pregava di andare a Macao dove, secondo le sue stesse parole, stavano succedendo cose “strane e inquietanti”. Affaticato dalle molte ore di volo, mi dirigo verso Macao a bordo di un aliscafo che mi riporterà indietro nel tempo, ai giorni più felici della mia vita”. Candy è una amica trans, ma poi scopriremo che è stata molto di più, del protagonista che la va cercando, che apre il film in uno splendido show drag affiancata da due tigri. Dal Festival di Locarno, dove il film ha vinto una Menzione Speciale, il critico Carlo Cerofolini scrive: “Le sue sequenze sono di quelle che bucano lo schermo e imprigionano l’attenzione per l’effetto di una combinazione tanto stravagante quanto affascinante… Siamo a Macao, la Las Vegas dell’oriente, ex-colonia portoghese da poco passata sotto la sovranità della Repubblica Popolare Cinese. Così la definisce il protagonista del film ed è in questo modo, sospeso tra un passato ancora recente e un futuro ancora da scrivere, che inizia il presente della storia, trascinato quasi a forza dentro un intrigo misterioso e affascinante che prende le mosse dal ritorno del protagonista nella città da cui era partito trent’anni prima e in cui si ritrova per aiutare Candy, amica di gioventù invischiata in un giro pericoloso. Nel tentativo di soccorrere la donna, nel frattempo scomparsa, l’uomo vaga per la città ritrovando i luoghi e le atmosfere che avevano caratterizzato i momenti più belli della sua vita. E’ tutta qui la storia del film più bello del festival, almeno finora. Eppure è da questo esile intreccio, fatto di violenza e di ricordi, di incontri mancati e di struggente nostalgia, di uomini che cercano qualcosa e di altri che non cercano nulla, di voci e di dialoghi intrisi di saudade portoghese così come di scrittura hard boiled alla maniera di Hammett e Chandler, che l’opera trova la forza per diventare la messa in scena di un congedo definitivo dalla memoria di un’epoca che non potrà più tornare… Filmato come fosse un reportage, con pezzi di repertorio, fotografie e spezzoni televisivi che frammentano il flusso di coscienza con cui il film progredisce e si sviluppa, “A Última Vez Que Vi Macau” riesce ad evocare un mondo labile, concreto nel portare a termine l’incipit della storia e allo stesso tempo a cogliere l’inneffabile nelle cose e negli uomini. Corpo e anima, lacrime e sangue, atto d’amore verso una città che diventa un luogo dell’anima. Per chi scrive, l’opera dei registi João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata è tra quelle più belle viste negli ultimi tempi.” (Ondacinema.it)

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Two filmmakers leave to Macao in an adventure of discovery of a city-labyrinth, multicultural and mysterious, where the memories of the childhood – featured memories by the lived reality in Macao – have a dialog with the memories of the East built by the codes of the cinema and the literature – memories lived on a featured reality-, creating a testimony which tries to raise the veil on the past and the present time. A personal album of physical and emotional geography, structured as an investigation disguised as a thriller, where the puzzle of the history challenges the reality. (Imdb)

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Vince come Miglior Film (€ 7.000) al Torino Film Festival con la seguente motivazione: Per il complesso coinvolgimento con la storia culturale e la sua ossessionante evocazione della memoria personale e collettiva

CRITICA:

” I registi e interpreti portoghesi João Rui Guerra da Mata e João Pedro Rodrigues incantano Locarno presentando l’intenso A ultima vez que vi Macau, viaggio emozionale da Occidente a Oriente originato da un’email in cui una donna stabilitasi a Macao contatta un conoscente, anche lui un tempo residente laggiù. L’uomo, che da più di trent’anni ha fatto ritorno in Portogallo, decide di accorrere in aiuto dell’amica, Candy. Il viaggio in nave per raggiungere l’ex colonia del Portogallo è occasione di ricordo dei momenti felici vissuti a Macao. Al suo arrivo, però, l’uomo scopre che l’amica è misteriosamente scomparsa e la città è popolata da misteri che terrorizzano gli abitanti.
Melodramma-noir raffreddato ed estremamente cerebrale, coraggiosamente eccentrico, una scommessa che si avvicina (nel suo abbinare camp, sperimentalismi e citazionismi del grande cinema hollywoodiano) a un altro strambo film portoghese visto quest’anno a Berlino, Tabu di Miguel Gomez. Dei due registi, João Rui Guerra da Mata è quello che ha vissuto la sua infanzia e adolescenza a Macao, per poi andarsene via nel 1990, con il definitivo ritorno di quella che da quattro secoli era colonia portoghese alla madre-matrigna Cina. Un trasferimento di sovranità che ha significato la fine di un mondo coloniale e l’inizio di una Macao versione Las Vegas asiatica. Il regista è anche il protagonista invisibile di questa pellicola, ne vediamo sì e no l’ombra, ne udiamo solo la voce narrante che dipana la storia, ne ricostruisce gli antefatti e ne racconta lo svolgersi.
Una finzione ricostruita attraverso un quasi-documentario, dimostrando di sapere cos’è il cinema e quanto esso sia naturalmente ambiguo. Sta anche qui il fascino enorme di questo film così iperconsapevole da sfiorare il metacinema, eppure percorso da una continua tensione e passione tra il romantico e il surrealista. In questi frangenti si vede la mano di João Pedro Rodrigues, che si conferma un grande autore.
La ricerca continuamente frustrata di Candy attraversa tutta questa città impossibile, consentendo ai due registi di esplorarla oltre ogni possibile cliché, di mostrare luoghi della nuova Macao e di quella coloniale ormai in disfacimento, ombre che si aggirano in cunicoli, docks deserti, locali equivoci e minacciosi, cani inselvatichiti, topi e insetti. Macao come teatro di fantasmi, di ombre, dove tutto è già accaduto e tutto potrebbe di nuovo accadere. Uno di quei luoghi dell’ambiguità e del pericolo, come sospesi nel tempo e nella storia, che il cinema ci ha consegnato più volte: prima fu la Amburgo di Von Stronheim poi la Shanghai di von Sternberg, la Salonicco di Pabst, la Tangeri di Bertolucci, la Casablanca di Curtiz. Finirà in dramma o meglio nel nulla. Da Macao non può esserci ritorno, perché è il non luogo per eccellenza.
Film formidabile, di quell’austerità estrema che è del cinema portoghese (ci vuole coraggio a realizzare un film in cui il protagonista è invisibile), ma che ci racconta anche una storia, seppure non sempre trasparente nei suoi passaggi. Film che entra e dissolve e che, nonostante corra sempre il rischio di essere saggio, deriva sperimentale, specchio criptico, non ne resta prigioniero; anzi forse rende prigionieri anche noi di lui stesso. Piccolo capolavoro”. (Erik Negro, paperstreet.it)

“…Da Mata torna a Macao dopo trent’anni. Candy, un travestito che canta in un club di Macao e finito in giri rischiosi, gli ha scritto in una lettera disperata di essere in pericolo, lo ha implorato di venire al più presto in suo soccorso, di salvarla prima che sia troppo tardi. La prima scena, folgorante, ci mostra Candy che si esibisce con due tigri sul palco, da cui la separa solo una rete, e naturalmente canta la stessa canzone di Jane Russell in Macao di Sternberg. Poi, una misteriosa sparatoria in un angolo remoto della città, una vittima. De Mata cerca di mettersi in contatto con Candy, ma la città ha i tentacoli di una piovra, si ritrova sempre nel posto sbagliato, arriva troppo tardi all’appuntamento con l’uomo che lo doveva portare dalla chanteuse. Nei giorni seguenti cercherà di ritrovarla, ma ogni volta fallirà. Intanto viene pressantemente invitato ad andarsene, a lasciare Macao, se non vuole fare una brutta fine. Sullo sfondo una misteriosa organizzazione che ha che fare con lo zodiaco cinese, e una Madame Lobo di implacabile crudeltà. Questa ricerca coninuamente frustrata di Candy attraversa tutta Macao, consentendo ai due registi di esplorare la città oltre ogni possibile cliché, di mostrare luoghi della nuova Macao e di quella coloniale ormai in disfacimento, ombre che si aggirano in cunicoli, docks dove nessuna persona di buonsenso si avventurerebbe, bottegucce equivoche, locali ancora più equivoci e minacciosi, cani inselvatichiti ovunque, topi, insetti. Macao come teatro di fantasmi, di ombre, dove tutto è già accaduto e tutto potrebbe di nuovo accadere. Uno di quei luoghi dell’ambiguità e del pericolo, come sospesi nel tempo e nella storia, che il cinema ci ha consegnato più volte: la Shanghai di von Sternberg, la Salonicco di Pabst, la Tangeri di Bertolucci, la Casablanca di Curtiz. Finirà in (melo)dramma, ovvio. Da Macao non può esserci ritorno, una volta che ti ci sei avventurato. Film formidabile, di quell’austerità estrema che è del cinema portoghese (ci vuole coraggio a realizzare un film in cui il protagonista è invisibile), ma che ci racconta anche una storia, seppure non sempre trasparente nei suoi passaggi. Film che entra nel labirinto Macao e ne resta prigioniero, e forse rende prigionieri anche noi. A mio parere, il film di gran lunga più interessante del Concorso internazionale, da candidare subito al Pardo d’oro. Il mio culto di questo Locarno.” (L. Locatelli, nuovocinemalocatelli.com)

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