La gabbia dorata

Ken Loach non si smentisce mai, nemmeno attraverso i suoi allievi, come Diego Quemada-Diez regista alla sua opera prima con “La gabbia dorata”, assistente del maestro inglese in diversi suoi film (Da Carla’s Song a Bread and Roses). Un debutto crudo e asciutto come il Loach dei primissimi tempi. Un viaggio verso il sogno americano di tre ragazzini guatemaltechi che lasciano la miseria dei loro villaggi nella speranza di trovare il paese dei balocchi oltre il confine. Si dirigono verso la frontiera con tutti i mezzi di fortuna che i migranti latinoamericani da anni utilizzano per passare il valico: tetti dei treni, gallerie scavate nel deserto, camionette sfondate. I tre adolescenti sono talmente offuscati dal loro sogno da non prevedere l’inferno che li sta aspettando e che coglierà le loro vite ben prima della grande muraglia.
Diego Quemada Diez gira in sequenza temporale e utilizza come “figuranti” oltre 600 migranti incontrati lungo il cammino (tutti rigorosamente ringraziati sui titoli di coda). I gringo americani sono solo uno dei lupi pronti a sbranarli. Lungo il viaggio, i tre ragazzi incontreranno anche banditi, trafficanti di droga, predoni dei loro stessi paesi che non si vergognano di spogliare i loro fratelli dei miseri beni con cui cercano di espatriare. Le donne hanno di solito un altro destino, più infame.
Il regista ha il merito di regalarci lo sguardo di questi tre ragazzini avventurosi, costringendoci a vivere con loro l’abisso della disillusione. Meno appassionante, la puntigliosità e l’eccessiva descrittività del viaggio, che tende a raggelare l’emozione, per poi magari recuperarla con un colpo ad effetto. Con pedante rigore il coltello va fino in fondo.

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