• R. Schinardi (Gay.it)

Hunger

Un “film-sfregio”, crudo, potente, iperviolento: è Hunger, opera prima di Steve McQueen, l’autore di Shame (ma questo suo esordio è molto più riuscito), giunta da noi con colpevole ignominia ben quattro anni dopo la realizzazione, vincitrice della Caméra d’Or a Cannes. L’Odissea in forma di martirio quasi cristologico di Bobby Sands, militante dell’Ira in lotta per l’indipendenza dell’Ulster, ossia l’Irlanda del Nord, consuntosi fino alla morte il 5 maggio 1981 nel durissimo carcere di Long Kash detto “The Maze”, “Il Labirinto”, dopo uno sciopero della fame di 66 giorni per ottenere lo status di prigioniero politico, è molto diverso dai consueti film carcerari: è un sofisticato film d’autore (non a caso Steve McQueen nasce come video artista) in cui al crudo realismo delle scene di pestaggio, violenza estrema – mai pulp, comunque – umilianti degradazioni fisiche e morali, si affiancano lunghi piani sequenza la cui cura dell’inquadratura cerca di “isolare” l’orrore cercando, a volte riuscendovi, una personale estetica fortemente espressiva (e una parete coperta di escrementi o un corridoio invaso dalle urine dei detenuti durante le feroci proteste “dello sporco” e “delle coperte” vengono viste sotto una nuova, perturbante “luce artistica” in cui persino la voce di una Margaret Thatcher sempre più cinica sembra qualcosa di sozzo da cui liberarsi prima possibile). Impressionante Michael Fassbender in una di quelle interpretazioni “totali” – è realmente dimagrito 30 chili – che dimostrano l’abnegazione dei grandi attori: ogni ganglio del suo corpo recita il lacerante strazio e il lento abbandono alla vita per un ideale politico e sociale (le piaghe vive in primo piano tra i muscoli contratti fanno pensare all’iconografia dei primi morti per Aids). La forza del suo personaggio sta soprattutto nell’averne evitato l’apologo agiografico con sguardo lucido e consapevole: entra infatti in campo dopo una ventina di minuti, quasi a dire che è un prigioniero come gli altri, e lo spettatore è portato a pensare che il protagonista sia il secondino del prologo o il giovane nuovo ingresso nel temutissimo blocco H.
Un corpo “assoluto”, febbricitante, tutto nervi e dolore, quello di Fassbender, abbandonato senza inibizioni alla macchina da presa, vertiginoso nella sua identificazione con Bobby Sands: «la mente della mia famiglia è mia sorella Catherine, neuropsicologa, io sono il corpo» ha dichiarato a Ciak, aggiungendo, a proposito dei nudi di Shame: «Grosso modo metà dell’umanità ha un pene, e grosso modo l’altra metà lo ha visto o lo vedrà. Quindi francamente non mi sembra un problema» (in Hunger, rispetto a Shame, abbondano molto di più i nudi frontali ma il suo è tagliato ad altezza inguine).
Straordinario per intensità e tensione il lungo piano fisso incastonato a metà film col prete che, a partire dalla propria infanzia, porta Bobby Sands a svelare il senso profondo della sua decisione in cui l’eroismo lascia il posto a un’umanissima dignità desiderosa di diritti per le generazioni future. Da vedere.

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