QUEER LION - LE STELLE DI SANDRO AVANZO

Un affascinanate “Pasolini ” di Abel Ferrara, accolto con distacco dai critici veneziani, conclude la visione degli ottimi film in concorso per il Queer Lion.

“LES NUITS D’ETE” di Mario Fanfani vince il Queer Lion 2014

La giuria del Queer Lion, presieduta da Alessandro Zan, e composta da Daniel N. Casagrande, creatore del leoncino queer, e da Marco Busato, delegato generale dell’associazione culturale CinemArte, attribuisce il premio per il “Miglior Film con Tematiche Omosessuali e Queer Culture” a “LES NUITS D’ETE” di Mario Fanfani presentato all’interno delle Giornate degli Autori. Questa la motivazione:
La ricerca della propria identità è sempre un atto rivoluzionario! Lo fa il protagonista indossando abiti femminili pur mantenendo le proprie convinzioni borghesi; lo fa la moglie attraverso la sua emancipazione e gli ideali pacifisti; lo fanno a loro modo tutti gli altri personaggi all’interno di un’opera queer che mescola, con eleganza, tradizione e trasgressione“.
La giuria del Queer Lion sottolinea infine con soddisfazione la presenza di numerose opere con tematiche e personaggi LGBT all’interno della selezione della 71. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Oltre ai 7 film in gara per il Queer Lion, si segnalano anche: The Humbling di Barry Levinson, Taipei Factory II di Hou Chi-Jan, Cho Li e Hsieh Chun-Yi, Red Amnesia di Wang Xiaoshuai, Italy in a Day di Gabriele Salvatores.


“PASOLINI” di Abel Ferrara

E’ forse la presenza testimoniale di Ninetto Davoli la chiave di accesso al “PASOLINI” di Ferrara. Nella transizione dal Ninetto in quell’Eduardo De Filippo che non fu mai realizzato nel progetto incompiuto “PORNO-TEO-KOLOSSAL” e a cui ora il regista italo-americano suggerisce una possibile forma mettendolo al fianco di Riccardo Scamarcio, diventato il Ninetto di oggi; la nuova coppia Epifanio-Nunzio, il vecchio mago alla ricerca del nuovo Messia e il suo giovane assistente, sul ricalco della storica coppia Totò-Ninetto.

La partecipazione di Davoli non come semplice tributo al regista scomparso, ma come corpo che continua a vivere a quasi mezzo secolo dal delitto di Ostia, un corpo che può ancora agire, esprimersi, palpitare quanto meno nella forma del cinema. Ne è la riprova il modo in cui è girata l’infernale sequenza della città di Sodoma, con gli accoppiamenti carnali tra gay e lesbiche, accoppiamenti destinati a perpetuare la riproduzione della razza umana, tra due schiere di confratelli e consorelle che si insultano con le peggio espressioni di odio omofobico. Filmandola in una Roma esibita nella sua assoluta contemporaneità con tanto di Piramide Cestia ingabbiata nei lavori di restauro, Ferrara non va in cerca di mascheramenti e illusioni, ma riporta tutto esplicitamente ai tempi di oggi, le considerazioni come le location.

Negli attuali tratti somatici di Davoli, non più garzoncello scherzoso ma uomo quasi prossimo alla terza età, in questo serissimo gioco di transizioni non solo metaforiche, va a collocarsi un percorso nella psiche e nelle idee dell’intellettuale-poeta-regista sorpreso e raccontato nell’ultimo giorno di vita.  Ferrara non intende tanto regalare a Pasolini le fattezze di un pur mimetico Willem Dafoe, ma collocarlo all’interno di una tragedia che si fa grande del proprio minimalismo. Le sembianze gli sono negate dall’ombra che lo avvolge già nella scena dell’inizio; collocato nel buio della notte romana o nella sala di montaggio, è già dentro l’ombra della morte che lo attende.  L’oscurità lo richiama di continuo, sia nella realtà sia nelle immaginazioni, e quando PPP non scompare nel buio si annulla nelle sue parole, nei suoi sogni, nelle lacrime della famiglia che lo piange nel drammatico finale. E’ come se Ferrara gli negasse l’autenticità di un corpo anche quando lo porta in scena.
Per cercare complicità intellettuale con lui, per dare una forma idonea alle idee, alla complessità delle posizioni, usando frammenti da romanzi ed editoriali, interviste e lettere, pagine di “PETROLIO” e sequenze di “SALO’”, lacerti rubati a tutti i generi espressivi affrontati da Pasolini. A ciascun frammento è affidato il compito di restituire solo una tessera dell’articolata e contradittoria figura che furono l’uomo e l’intellettuale in una drammaturgia di matrice brechtiana che chiama in causa l’intervento in primis dello spettatore a ricostruire l’interezza della figura. Le notizie di nera sul Corriere, i consigli alla cugina di trascrivere le telefonate notturne di Penna, i differenti corpi violati dei giovani di Salò, l’incidente dell’aereo in “PETROLIO”, la distruzione dell’utopia in “PORNO-TEO-KOLOSSAL” compongono tutti la partitura della fine e insieme dicono in modo preciso delle abitudini personali di Pasolini senza attribuirgliele direttamente, come nella mirabile sequenza del Pratone del Casilino in cui vediamo l’alter-ego letterario del poeta impegnato in una serie di fellatio quasi da cinema hard (qualcuno se ne stupisce ancora in questa Venezia 71?). Però senza commozione, senza disperazione, senza un autentico sanguinare.

Questo Pasolini è una creatura impalpabile, che fisicamente non si muove quasi mai, fatta della sostanza dei sogni, partorita dalla notte, che usa parole tratte solo dai testi originali. E’ una creatura quasi spettrale che gira in casa come nelle strade di Roma col passo impalpabile di un ectoplasma. Con rassegnazione attende, con rassegnazione si muove, con rassegnazione si esprime. Aspetta che una delle sue sbandierate discese all’inferno sia quella del non ritorno. E se per lui la speranza è morta, svanita al pari del sottoproletariato e con il livellamento sempre più imperante della società dei consumi, pur ugualmente continua ad amare la vita con una disperata vitalità. Non può astenersi dall’ammirare il figlioletto di Ninetto, la voracità di Pelosi-La Rana che divora gli spaghetti, l’energia contagiosa del ballo di Laura Betti.

Le riprese della sua morte riguardano forse più la famiglia che non il presunto complotto dei servizi segreti deviati. Ha più rilievo il pianto di Adriana Asti che rimanda a quello della Madonna nel “VANGELO SECONDO MATTEO” che non le reazioni pubbliche di intellettuali e masse popolari. Queste restano nello sfondo indistinto, quasi fuori schermo, nella lettura di Ferrara. Non è questo tipo di plausibilità ad interessarlo. Non la verosimiglianza linguistica che tanto ha scandalizzato qui al Lido, con Pasolini-Willem Dafoe, che parla in inglese quando esprime opinioni e pensieri e che si esprime in italiano quando si rapporta con Pelosi (quando mai avrebbe capito una lingua così ricca e colta?). Tale divergenza andrà purtroppo perduta nel doppiaggio previsto per le sale italiane. Sono particolari come questo che indicano le tracce da seguire nell’opera di Ferrara. Alla ricerca non del tributo, non del maestro, ma della nuova contraddizione, del nuovo scandalo. Perché prima di Pasolini c’era stato anche “qualcun altro” sceso sulla terra 2000 anni fa con l’intento di portare guerra e scandalo, di dividere i figli dai padri e i fratelli dai fratelli e alle parole di quel “quacun altro” il regista si è sempre dimostrato interessato.


THE SMELL OF US di Larry Clark

Larry Clark è un regista che si ama o si odia senza mezze misure. E anche in questo caso, non fa eccezione. Come sempre estremo, come sempre alla ricerca dello scandalo. Ma stavolta forse in un modo e con significati personali differenti e originali. In trasferta parigina ha avuto per collaboratore alla sceneggiatura Mathieu Landais e tra gli interpreti ha chiamato il conturbante Michael Pitt di “Boardwalk Empire” e “Dawson’s Creek”. Soprattutto sembra voler sottolineare il suo coinvolgimento diretto con quanto va a filmare, mostrando sullo schermo, nelle sequenze iniziali, sé stesso nel ruolo del barbone che i ragazzi, in folli corse sugli skate, si scatenano a scavalcare, driblare e perché no a investire. Totalmente sotto di loro e alla loro mercé.

Siamo nel Dôme, a due passi dal museo d’arte moderna e proprio di fronte alla Torre Eiffel. E’ qui che la nuova gioventù francese, fors’anche la meglio gioventù francese di oggi, si dà appuntamento per divertirsi tra droghe facili, musica e sesso, un infinità di sesso. Siamo a Parigi, ma potremmo trovarci in una qualsiasi metropoli della contemporaneità globalizzata. Il proprio corpo lo si vende, lo si regala, soprattutto lo si filma per postarlo sui social. Il piacere sessuale è scivolato forse all’ultimo posto della lista. Sono gli adulti a goderne e a cercarlo ancora, e sono loro a pagare per ottenerlo. La vecchia dalle rughe più cadenti delle tette che si concede una fellatio al ragazzino, il feticista del piede che paga per poter succhiare un alluce dall’unghia orrendamente sporca a un giovanotto disponibile.

Gli adulti? Basta ingannarli e sfruttarli al massimo, dar loro solo l’illusione di poter comprare il tuo corpo; se il tipo che paga per scoparti non ti va, e già lo sai che non ti va, basta aumentare la dose della droga e non senti più il suo c**** nel tuo c***; se poi la situazione diventa complessa allora puoi sostituisce il viagra con una pastiglia di sonnifero blu e il vegliardo si addormenta di botto così tu puoi trasformare casa sua nel posto in cui far festa con gli amici e con loro distruggere mobili, quadri e tappeti. Della serie “Raga, la festa è qui!”.
I genitori? Quali genitori? Se e quando ci sono hanno altro da pensare piuttosto che starti a sentire, neanche se scoprono che ti prostituisci per soldi. Il mondo adulto è un altro universo che non ti riguarda, anzi per molti versi ti invidia e ti odia. Di questo bel panorama fanno parte Chris e JP, giovani marchettari di estrazione borghese, complici di letto e legati tra loro da abbozzi di sentimento, che si vendono per vendersi, neppure per vera necessità. Sono i loro incontri, le loro bravate, i loro piccoli drammi a dar corpo allo svolgimento del film. Sono gli Encolpio e gli Ascilto del nuovo millennio, che come i loro precursori dell’epoca latina passano in mezzo e si adeguano a una società che è priva di qualsivoglia valore morale, civico e politico.

Sono davvero impressionanti le analogie tra le immagini di Larry Clark e le pagine del Satirycon scritte da Petronio, entrambe al crepuscolo di due differenti imperi separati da due millenni. Analogo è lo sguardo privo di un giudizio, anzi facente parte della stessa narrazione, analogo è l’interesse per il quadro complessivo della società raccontata, più che per i singoli episodi sviluppati. Con una serie di precisi riferimenti di Clark a momenti topici e fortemente significativi dei classici del cinema, l’orgia finale della “DOLCE VITA” piuttosto che l’esplosione finale di “ZABRISKIE POINT”. Viva la decadenza e abbasso ogni morale! Nel suo consueto stile il regista gioca con il voyerismo dello spettatore divertendosi a filmare gli oggetti dei desideri proibiti senza arrivare a mostrarne una completa soluzione, riprende il pube del ragazzo che si masturba ma si ferma all’attaccatura del pene, filma l’infilmabile penetrazione anale eseguita dal vivo in ruolo attivo dal vegliardo di turno ma non ne fa vedere i dettagli eccitanti da film hard. Ricicla e ripropone tante e tante situazioni che hanno dato scandalo e costruito la sua fama nella più che ventennale carriera dai tempi di “KIDS”, cita e si autocita in un flusso che ipnotizza fino alla noia ricercata. Forse è fuori tempo massimo, ma è come se volesse firmare la sua opera ultima, quella definitiva. Senza misura: per essere amato o odiato per sempre. A ciascuno la scelta.
P.S. Caso mai non lo si fosse capito: il film è un trionfo di nudi maschili (lato A+B), non più mosche bianche della programmazione di Venezia 2014. 


RED AMNESIA di Xiaoshuai Wang

Che premio si porterà in Cina da Venezia il film “RED AMNESIA” (altro titolo che avrebbe potuto essere in gara anche per il Queer Lion)? Ce lo chiediamo perché la giuria del concorso ufficiale non può ignorare un’opera tanto poetica e tanto densa di sensi e di significati. Può essere il Leone d’oro come lo Speciale della Giuria; il minimo che si possa meritare è la Coppa Volpi all’anziana Lu Zhong (assolutamente immensa!) per un’interpretazione impegnativa e commovente. E’ lei la protagonista che buca lo schermo in ogni inquadratura e sa comunicare ogni sfumatura dell’animo del suo personaggio.

Una vecchia donna che vive da vedova nella casa di Pechino che era stata della famiglia, marito e due figli. Ora che il marito è morto e i figli l’hanno lasciata per farsi la propria vita, lei pranza davanti alla foto del defunto monologando con lui per riempire il vuoto delle stanze, occupa la giornata andando a far visita alla propria vecchissima madre ricoverata in un ospizio o recandosi a casa dei figli per preparare loro un pasto amoroso come solo mammà sa fare. Nell’appartamento del minore, lo sorprende con un ragazzo che chiaramente è il suo amante, ma lei finge di non accorgersene (“Non ti preoccupare, ha capito tutto, ma preferisce non affrontate l’argomento. Prima o poi dovrai chiarirti con lei” dirà a un certo punto il fratello maggiore al più giovane).

Tutta questa prima parte sembra indirizzare verso un film dedicato alla difficoltà di vivere in solitudine la terza età in una realtà metropolitana contemporanea uguale in Cina come in Europa o negli USA. Ma così non è, all’improvviso il racconto prende una svolta inaspettata dal momento in cui l’anziana donna comincia a ricevere telefonate mute, forse di minaccia, forse di scherno. Qualcuno inizia a perseguitare lei, o attraverso di lei intende perseguitare il figlio maggiore? Chi svuota sacchi di immondizia sul pianerottolo di fronte alla porta dell’appartamento? E’ forse il misterioso ragazzo incontrato per strada e che le si è offerto di portarle la spesa fin dentro casa? E’ lui che distrugge i pannelli in cui erano esposte tutte le foto della donna e della sua famiglia fin dall’epoca della giovinezza? Perché lo si era visto integralmente nudo sotto la doccia (lato B; ennesimo episodio in Venezia 71) nelle prime sequenze del film?

Tutta questa parte centrale è virata sulle cadenze del thriller di minaccia quasi in contrasto con quanto visto in precedenza. Ma è nell’ultimo lungo capitolo conclusivo della storia che si svelano i misteri, quando la donna torna in luoghi lontani nel tempo e nella distanza geografica dalla capitale, nei luoghi che l’avevano vista ragazza e giovane madre, attiva esponente del partito comunista durante la rivoluzione culturale di Mao. Realtà rurali in cui sorgono ancora immense fabbriche oramai abbandonate e lasciate al degrado (“Oggi non ci si sente più orgogliosi ad essere degli operai”). Qui incontriamo nuovamente il ragazzo misterioso (il titolo dell’originale cinese significa appunto “L’intruso”) e qui l’anziana donna avrà modo di fare i conti con i propri errori e con la Storia (quella con la maiuscola). Il tono del film è tenuto in un sorprende equilibrio di mezze misure dalle infinite sfumature, mai urlato o concitato, sommesso sì ma non tranquillizzante. Così nell’inquadratura finale di una semplice finestra aperta su un paesaggio montano possiamo riconciliarci anche noi con la vicenda della protagonista e immaginare quale futuro e quale realtà ci possa essere al di là della quinta frastagliata dell’orizzonte.


“FLAPPING IN THE MIDDLE OF NOWHERE” di Nguyen Hoàng Diep

Deciderà  di abortire o di tenersi il suo bambino e di tirarlo su la 17enne Huyen, studentessa all’ultimo anno delle superiori che vive sola alla periferia della grande città ? Ce lo chiediamo nella prima sequenza del film e ce lo chiediamo ancora alla fine della proiezione. Non è l’esito della storia l’aspetto più importante di questo film intenso, vitale, del tutto originale “FLAPPING IN THE MIDDLE OF NOWHERE”, la pellicola vietnamita presentata dalla Settimana della Critica a Venezia 71, è l’opera prima della regista Nguyen Hoàng Diep che ci porta a conoscere un’inedita periferia di Hanoi, quasi un non luogo o tutti i luoghi del mondo come suggerisce il titolo che si potrebbe tradurre come “Sbattere le ali nel mezzo del nulla”.

Più che lo svolgersi della vicenda diventano importanti i luoghi in cui si sviluppa, i caratteri e la psicologia dei personaggi e i modi in cui interagiscono fra loro. Una strada percorsa nel centro da un tram che non sa da dove venga e di cui non si conoscono i capolinea. Un borgo natale perduto tra i verdissimi monti dove non è più possibile tornare e reinserirsi. Un monolocale (più angolo doccia) che si affaccia su una via fatta di gente in transito verso non si sa quali mete. Lande deserte vicino all’acqua, ideali per non essere disturbati durante i combattimenti tra galli. Hotel di gran lusso uguali a tutti gli altri di Amsterdam, Sidney, Los Angels, o Brasilia. Molte le riprese di piani inclinati ed equilibri precari (in primo luogo la piattaforma sospesa sulla quale avviene la rivelazione della gravidanza), tante le immagini di saliscendi e dislvelli, per non dire delle scene girate sull’orlo di precipizi e dirupi. E’ il ritratto di una città  vitale che pulsa di mille energie ma di cui non si conoscono altre storie se non quelle dei protagonisti. La ragazza incinta, appunto, e poi Tung, il suo ragazzo di poco più adulto, innamorato e solidale con lei ma ancora troppo giovane e impreparato per poterle essere davvero di aiuto. Hanno bisogno assoluto di denaro per l’aborto, ma non è questo contingente il loro disagio più autentico.

Accanto agiscono e interagiscono la ex-fidanzata di lui, più adulta e matura, che si lascia derubare senza problemi nel momento in cui si rende conto della situazione fisica e psicologica della 17enne, la mezzana abile a gestire il giro della prostituzione sia femminile che maschile, il ricchissimo feticista che impazzisce per la pancia di una donna gravida (è solo l’ultimo dei tanti nudi maschili integrali – lato B – passati sugli schermi di questa Venezia 2014), e soprattutto c’è Linh, l’amico gay vicino di casa di Huyen che si guadagna la zuppa quotidiana come travestito che si prostituisce nel buio dei vicoli della città . E’ l’altro lato della femminilità  (o della mascolinità , che dir si voglia), l’unico che veda in modo pragmatico la realtà  dei fatti. Nell’economia della storia non ha un ruolo di rilievo, nell’evoluzione psicologica della ragazza è fondamentale. Anche quando viene picchiato a sangue da chi ne scopre il segreto sotto le gonne, resta Linh lo specchio in cui ricercare una propria identità  sociale e psicologica non ancora raggiunta. Huyen forse ci arriverà , ma pian piano, attraverso l’amore sicuro, immaturo ed economicamente incerto del proprio ragazzo, attraverso l’amore auspicato e respinto del ricco feticista, attraverso il recupero di un rapporto con la madre non più lontana, attraverso la comprensione della ragazza più adulta. Il bambino che (forse) nascerà  ne sarà  il frutto non solo metaforico. 


“MITA TOVA” di Tal Granit e Sharon Maymon

Se pensavate che la black comedy in cui viene declinato il tema della morte in chiave umoristica fosse un’esclusività del cinema inglese, siete proprio in errore. MITA TOVA – The Farewell Party girato in coppia da Tal Granit e Sharon Maymon è un film israeliano che tratta lo stesso argomento nelle stesse modalità tra l’assurdo e la farsa allontanandosi parecchio anche dal prevedibile umorismo yiddish. E si ride, si ride proprio tanto. Fin dalla comicissima sequenza di apertura in cui un’anziana signora molto malata mostra un chiaro intento di farla finita, ma ne viene dissuasa da una telefonata di un amico che si fa passare per Dio e le comunica (e lei crede davvero di parlare al telefono con Dio!) che i posti in paradiso sono momentaneamente sold-out, quindi per ora nessuna possibilità di ricongiungersi al defunto marito; sicché la vecchietta si convince quanto meno a rimandare l’attuazione del proposito.

La pellicola racconta di tante altre storie come questa, di un sempre crescente numero di anziani che chiedono a medici, infermieri, parenti ed amici di porre fine alle insopportabili sofferenze fisiche che stanno subendo e alle malattie che non hanno speranza o possibilità di guarigione. Coinvolto in questa situazione di non facile soluzione morale e legale è un variegato gruppo di amici, tutti over 70 che vivono insieme in un kibbutz. C’è la casalinga, c’è l’uomo dalle mani d’oro che sa mettere le mani tanto sul tubo che perde che sull’impianto elettrico di casa, c’è l’ex-veterinario capace di trattare in farmaci e siringhe. La vita comunitaria che conducono li costringe a una vita gomito a gomito in cui possono continuare a discutere senza fine le proprie contrastanti posizioni, ma nello stesso tempo li mette sotto il costante sguardo degli altri membri della comunità. Dunque il loro modo d’agire deve sempre essere quasi carbonaro e quando mettono a punto uno strano congegno per permettere a un loro amico di togliersi liberamente la vita e di sottrarsi per sempre allo strazio delle sofferenze fisiche, si comportano un po’ da eroi e un po’ da delinquenti. I problemi si moltiplicano dopo, non tanto per gli scrupoli morali messi in campo dalla moglie del protagonista, quanto per il crescente numero di analoghi interventi a cui sono chiamati.

Nel gruppetto entra a far parte anche un poliziotto in pensione quando una vicina lo scopre a far sesso con l’ex-veterinario. Avete presente l’espressione idiomatica inglese “uscire dall’armadio” per indicare il momento in cui della propria omosessualità si fa un elemento di dominio pubblico? In una delle sequenze più divertenti del film il significato di tale metafora passa da astratto modo di dire a fatto concreto: l’anta dell’armadio si apre per errore e tutti gli astanti possono vederci nascosto dentro in un contesto inequivocabile l’ex poliziotto nudo come un verme (e ci risiamo con i nudi maschili di questo festival veneziano 2014!!!). I due sono amanti da decenni, classica coppia clandestina, col poliziotto gay velato che non vuole rinunciare pubblicamente alla moglie e alla famiglia e per di più vivrebbe il dramma di doverlo “dire alla mamma” (più che 90enne!). Dopo la pensione ha imposto al compagno di raggiungerlo nel suo stesso kibbutz. Il veterinario soffre da sempre la sua condizione di amante segreto ma ora ne patisce ancor di più perché incrocia l’altro quotidianamente senza potergli esternare apertamente il proprio sentimento. La presenza dei due e le loro paradossali discussioni costituiscono uno degli elementi più divertenti nella film, ma non incidono a fondo nello svolgimento dell’intera trama. Servono da contraltare spassoso ai problemi (e quanto seri problemi!) della coppia etero protagonista formata dal genio del bricolage e da sua moglie. Costei soffre infatti di un alzheimer veloce destinato a portarla rapidamente a morte. Alla fine le circostanze porteranno a una separazione tra i due anziani gay quando si verrà a scoprire che il poliziotto lucra sul comportamento generoso del gruppo e che ogni volta che si esegue un atto di eutanasia nelle sue tasche entra una congrua mazzetta. Sarà solo la nausea per tale immonda scoperta a spingere il veterinario dal carattere profondamente altruista e leale a troncare, seppure nel dolore, la sua tanto travagliata storia d’amore.

Anche la love story dell’altra coppia è destinata ad avere un finale triste, un finale bagnato dalle lacrime, ma rivelarne qui i modi sarebbe far un torto a un film concepito e realizzato con grande acume e intelligenza. Basti dire che dopo aver giocato per ¾ del tempo sempre con le carte del comico e del paradosso si permette di virare improvvisamente nel registro nel tragico in un contrasto di totale efficacia. C’è un momento preciso in tale svolta, quando l’anziana donna (che poi non è nemmeno tanto anziana, di certo la più giovanile del gruppo) al rientro a casa dopo una cena con la figlia e la nipotina, mette la borsetta nel congelatore del frigorifero come se fosse l’atto più logico del mondo. Da lì in poi i temi dell’eutanasia e della perdita di sé dovuta all’alzheimer si fondono e convergono precipitando la vicenda verso il drammatico finale. Basterà tanta abilità registica a convincere la giuria a premiare questa pellicola e a incoronarla sul podio del Queer Lion?


“LES NUITS D’ETE” di Mario Fanfani

“Io sono Mylène”. Comincia così il film “Les Nuits d’été”, opera prima del regista Mario Fanfani, francese di chiare origini italiane. In realtà quella battuta andrebbe fatta seguire da un punto interrogativo, perché lo svolgersi dell’intera vicenda porta a risolvere proprio questo quesito: chi è davvero Mylène? Il borghese notaio Michel con ambizioni politiche e marito felice di Hélène o il borghese dal vizietto nascosto che ama travestirsi con abiti femminili? Siamo nella Francia del 1959, l’anno caldo della Guerra d’Algeria e l’intera vita sociale è segnata da quel conflitto. L’azione ha luogo in tre principali location: la casa della coppia, la dimora di montagna sulle alture dei Vosgi in cui Michel si rifugia per dar sfogo al suo lato oscuro e il cabaret dei travistiti, un locale non certo di lusso alla Madame Arthur, ma un modesto ritrovo segreto in cui si danno appuntamento i pédé della città e non solo loro. Qui incontriamo tutti i personaggi principali della storia, a partire dal 19enne di leva richiamato per andare a farsi trucidare in terra d’Africa. Molti sono gli over 50 reduci della guerra mondiale e non stupisce sentire qualcuno di loro apostrofare il biondo soldatino con l’appellativo di “aryen” seguito dal commento di “horrible!”. Nel cabaret arriva il sarto dalle mani d’oro, genio dell’ago e del filo adorato da tutte le donne del paese, al cabaret trova rifugio il manovale che fugge dall’oppressione coniugale, qui arrivano a far baldoria i tiratardi della città amanti di cha cha cha proibiti o i soldati in libera uscita sicuri di trovare una bocca marcata dal rossetto dove scaricare le fatiche, le tensioni e tutto il resto.
La casa coniugale è il cuore del rapporto tra i due consorti, un nido ordinato simbolo della classe sociale di appartenenza e dello stauts del benessere raggiunto. Hélène ne è la regina assoluta e la cura come una reggia, Michel ne vive i vantaggi; ma è una casa senza una vera luce e un autentico calore. La casetta sui Vosgi è il luogo della libertà dove il notaio si ritira a fare esercizio di femminilità con l’amico e complice Jean-Marie che diventa Flavia quando si veste e si trucca al femminile.

Quando il soldatino è costretto a disertare diventa anche il suo rifugio, tetto comune per lui e per tutta la “banda” dei travestiti in fuga dalla città: Callipigia, Fée, Susy e le altre, tutte pronte a sottoscrivere e a rispettare il decalogo del perfetto travestito in una delle scene più divertenti del film. Intorno a tutti loro il fantasma di una guerra lontana ma presentissima negli effetti sociali ed economici. Guerra guerreggiata più guerra di emozioni personali a cui il film offre diverse soluzioni, tutte nel nome dell’affermazione della libertà e dei valori della vita contro quelli della violenza e della morte. Un film che fa politica autentica senza fare politica proclamata. Sarebbe un peccato svelare la conclusione dello scandalo provocato dal discorso pubblico di Hélène quando si rivolge con parole umane ai soldati al di là del Mediterraneo anziché pronunciare un discorso guerrafondaio. Sarebbe un peccato soprattutto rivelare come è risolta la situazione tra i due coniugi quando la moglie scopre il marito durante un’esibizione in stile drag-queen. Basti dire che tra serietà e ironia sono la comprensione e l’amore ad avere la meglio.

Non possiamo però far a meno di citare la magnifica carrellata dell’epilogo che arriva nel finale durante il titolo di coda. Mentre un magnifico travestitone canta la struggente canzone di Kurt Weill “Yukali” in cui si vagheggia un immaginifico paese di libertà (Yukali – il paese dei miei sogni,/ Yukali – solo felicità e sogni d’oro,/ Yukali – la terra dove non c’è traccia delle nostre preoccupazioni,/ Dove una notte tu sei vicino a me,/ Dove le stelle si amano) un’unica ripresa comprende ancora una volta tutti i protagonisti del film: l’etero che si trova meglio fasciato da un abito lungo con spacco inguinale, il gay che vive l’abito femminile come un stato di identità con cui presentarsi, il trans che aspetta solo il momento giusto per affidarsi ai ferri del chirurgo, l’artista che solo “truccato” trova modo di sfogare appieno i suoi talenti. Non un solo perché al travestitismo ma tanti tipi di travestitismi quanti sono i travestiti, tanto che viene da chiedersi, parafrasando il soggetto del film di apertura a Venezia 71: di che cosa stiamo parlando davvero quando parliamo di travestitismo?  


IL GIOVANE FAVOLOSO di Mario Martone


Un intenso Elio Germano nel film “Il giovane favoloso”

Ci volevano Mario Martone e il suo fiammeggiante film “IL GIOVANE FAVOLOSO” per dire una parola, forse definitiva, sulla questione della presunta omosessualità di Leopardi e del suo complesso rapporto che lo legò per anni all’amico Ranieri. E’ questione che da anni viene trattata dagli storici e dagli studiosi delle questioni lgbt che vorrebbero tirare il poeta per la giacchetta dalla propria parte.

Il regista che già aveva affrontato le parole del Leopardi a teatro nello spettacolo “LE OPERETTE MORALI” ne ricostruisce ora la vita sullo schermo dividendola in capitoli fondamentali: la fanciullezza e adolescenza a Recanati, la bohème a Firenze, il transito romano e la fine a Napoli. Ranieri interviene a partire dagli anni trascorsi sull’Arno in un freddo e spoglio sottotetto per rimanere accanto all’amico fino alla morte. Leopardi è già ampiamente compromesso nel fisico e ancora non ha avuto modo di sperimentare i piaceri della carne a cui comunque ambirebbe.

Ranieri è già il seduttore che colleziona avventure sentimentali tanto con attrici che con nobildonne. In una scena molto intensa e significativa il poeta, a letto malato, guarda l’altro che si lava nudo (l’ennesimo integrale qui al Lido, un fugace Michele Riondino in lato A+B). E’ uno sguardo meraviglioso che Giacomo-Elio Germano ci regala, uno sguardo che la dice tutta sul rapporto tra i due. C’è ammirazione, desiderio, speranza, illusione; è attraverso quel corpo che potrebbe avere un accesso a un universo agognato e a lui negato.

Come un novello Cyrano che ama Rossana attraverso il corpo di Cristiano, Giacomo capisce con dolore quella che finirà per essere la sua condanna a non avere contatti intimi con altre carni femminili e sarà l’ennesimo dolore intimo che lo distruggerà sommandosi alle disgrazie di un fisico torturato da mille disgrazie.

Certo quell’amicizia veniva già vista con un certo sospetto, testimoniato nelle parole dell’affittacamere napoletana da cui trovano il primo riparo a Napoli quando dice apertamente “A me quei due non la raccontano giusta”, ma la cosa più probabile è che l’autore di “A SILVIA” e dell’”INFINITO” sia rimasto davvero vergine per tutta la vita. Del resto l’episodio della visita al bordello mostrato nel film, una vicenda risolta nell’ennesimo dramma, tra il fallimento e la beffa pubblica, si basa su elementi storici molto probabili.

Per ora ci limitiamo a questa segnalazione di stretta tematica lgbt, perché il tempo non ci concede altro, ma di certo si tornerà a parlare di questo film quando uscirà in sala, perché è un film che farà molto discutere, per la sua complessità e per il ribaltamento totale che propone dell’ormai introiettato pessimismo di Leopardi. Potrebbe essere il momento fondante di una rivoluzione radicale del modo di insegnare e di apprendere la sua poesia.


THE HUMBLING di Barry Levinson

Sorpresa! Sorpresa! Sorpresa! Al Pacino arriva sugli schermi del Lido con 2 film e in THE HUMBLING, trasposizione cinematografica firmata da Barry Levinson del romanzo L’UMILIAZIONE di Philip Roth, si lascia sedurre da un personaggio lesbico tra i più memorabili degli ultimi anni. Strano? Non troppo se si considera l’insieme dei fatti. Lui è un attore non più giovanissimo, star sia di Broadway che del cinema, in crisi di identità (cos’è più vero nella vita? È il quotidiano o ciò che si recita sulla scena?) che in un momento di assoluto smarrimento si butta (o cade) nella buca dell’orchestra finendo poi in una clinica di recupero. Lei è la ex-bambina, figlia di una compagna di palcoscenico al tempo degli esordi, di cui è stato il padrino in tempi lontani. Il suo amore per l’uomo non si è mai spento dall’età di 8 anni nonostante i 6 lustri e più che da sempre li separano. Nel frattempo lei ha avuto molte storie amorose con molte donne, usando il suo fascino nei loro confronti anche per progredire nella carriera. Ora, superata la trentina, si ripresenta nella vita dell’attore per trovare un punto stabile in una vita balorda. Per lui, che non si è mai concesso all’amore, è la giovinezza che torna a bussare alle porte e che gli permetterebbe di recuperare la fiducia in sé stesso sia come attore che come uomo. Spende patrimoni e va quasi in rovina per la ragazza, per lei subisce umiliazioni di ogni tipo. Accetta di subire lo stolkeraggio della sua ultima ex (una accanita Kyra Sedgwick, transfuga dal serial THE CLOSER), non scaccia di casa la sua prima donna che ora ha affrontato un cambio di sesso FtoM, accetta i tradimenti con nuove compagne occasionali. Le situazioni e i dialoghi paradossali abbondano. “Non sei mai stata con un uomo?” “Non negli ultimi 16 anni” “Io non sono mai stato prima con una lesbica” “Ma forse non lo sapevi!”; o durante la cena a tre con il trans: “Vorrei trovare un posto in questa nuova situazione tra voi… ora che ti piacciono gli uomini e che io sono diventata un uomo”.  Ma i momenti più bizzarri sono in assoluto quelli tra l’attempato attore e una paziente conosciuta in clinica che vorrebbe assoldarlo come killer del marito in quanto pedofilo molestatore della figlioletta. Pacino è magistrale nel rendere il suo imbarazzo in queste scene che punteggiano tutta la vicenda come un tormentone, ma più in generale va applaudito per un’interpretazione altissima in tutto il film.  Barry Levinson gli offre una partitura in cui sfoggiare ogni gamma di sfumature dal comico al drammatico (non a caso i portafortuna del protagonista sono le due maschere greche della commedia e della tragedia), e Pacino questa partitura la usa per scatenarsi in ogni gamma di espressioni: ironiche, attonite, stupefatte, sfasciate, catatoniche, incantate… per non dire del modo in cui sa usare una voce capace di mezzi fiati spezzati a singhiozzo come di furori altrettanto inauditi (peccato che tanto grande bellezza sia destinata ad andare perduta nel doppiaggio italiano!).
Da grande attore qual è lo fa senza esibizionismi, senza gigioneggiare, con consapevole generosità verso il suo personaggio e verso gli spettori. E arriva anche a regalare il suo status di mito cinematografico al regista del film, quando gli permette di usare in modo molto ironico una sua celebre foto degli anni ’70, ai tempi di SERPICO e di QUEL POMERIGGIO DI UN GIORNO DA CANI. Greta Gerwig, nel ruolo dell’immatura lesbica, egoista e irresponsabile, riesce a reggere il confronto con tanta mostruosa bravura. La regia sa dosare e tenere sotto controllo l’intreccio di grottesco e drammatico, concedendosi parentesi di assoluta comicità come la parata dei gadget sessuali usati dalla coppia in crisi di piacere per impotenza maschile senile. Una scena che da sola vale il costo del biglietto. Per far capire come si chiude il film (perché è giusto darne un accenno) riveliamo che è di nuovo in teatro, dolce-amaro come conviene all’intera vicenda, soluzione aperta a molte soluzioni.


“THE GOOB” di Guy Myhill

Mentre Venezia 71 si apre sotto il segno di Lesbo con un intenso bacio saffico tra Andrea Riseborough e Naomi Watts (oramai un’abbonata dopo MULHOLLAND DRIVE ) nel film di inaugurazione BIRDMAN (che ci regala anche un notevole nudo integrale di Edward Norton solo nel lato B) il Queer Lion comincia a ruggire e a distendere le sue ali rainbow. Sono infatti già passati sugli schermi 2 dei 7 titoli che concorrono al premio lgbt del festival di quest anno al Lido. Uno è l’attesissimo THE GOOB di cui non si sapeva ancora quasi nulla. Ora, a proiezione avvenuta, possiamo dire che l’episodio gay è sì fondamentale, ma non dura più di un quarto d’ora. E’ il passaggio più bello e il più intenso del film. Ma per spiegarne le ragioni dobbiamo procedere con ordine.
Il regista Guy Myhill ambienta la sua storia in una regione rurale dell’Inghilterra, nella contea di Cambridgeshire, fisicamente lontana poche centinaia di kilometri da Londra, ma distante anni luce dalla frenesia, dalla vivacità e dagli stimoli della capitale. In questa campagna la vita trascorre sempre uguale, fuori dal mondo e fuori dal tempo. Tutto resta immoto: di giorno si coltivano le zucche, la sera si va al pub a giocare a biliardo o talora a sfidarsi in saltuarie camminate sulle braci ardenti, nei dì di festa si fanno follie buttandosi in folli corse d’auto su circuiti improvvisati tra il fango. Immerso in questa amena realtà vive il sedicenne Goob, con il fratello maggiore e la madre, il padre non si sa che fine abbia fatto. La figura di maschio alfa-dominante è data dal compagno della donna, un agricoltore boss della zona, zotico e violento q.b. come si addice a un maschio degno di tal definizione (un Sean Harris tatuato e davvero sexy che offre allo sguardo di noi spettatori voyeurs la visione integrale dell interezza del suo corpo nudo tatuato, anche in questo caso solo il B-side, sob!). Con costui e con la sua arcaica concezione della vita si scontra quotidianamente il giovane Goob. E’ uno scontro su più fronti, gioventù contro maturità , possesso della terra contro lavoro a giornata, forza fisica contro fragilità , conflitti che si esplicano in una costante tensione di matrice sessuale per il predominio sulle donne di ogni età (la madre, la ragazza invaghita del giovanotto). Il tutto nel nome del machismo più bieco ( qui sorgerà il viale della passera, perchè è questo che piace a noi, non è vero? ).
A turbare, anzi a inasprire la situazione, arriva a un certo punto un altro ragazzo, lavoratore a giornata. E’ l’unico elemento di alterità in quella realtà così immobile e immutabile. Arriva dall’esterno, è gay, ama ballare ( I Feel Love di Donna Summer), gli piace provocare vestendosi con vistosi abiti femminili color fucsia rubati tra il bucato steso ad asciugare. Una fascinazione sull’inesperto Goob e un forte legame con lui sono inevitabili come è inevitabile il conflitto col possidente violento, unico gallo padrone del pollaio. Proprio lo scontro tra quei due mondi e tra individui tanto distanti è il momento più forte e più riuscito del film. Di notte, tra i campi, nel buio sciabolato solo dalla luce dei fari di un pickup, il giovane gay è costretto a spogliarsi (e qui vediamo finalmente anche il suo nudo frontale!) e a subire violenza carnale (che fortunatamente non vediamo). Una scena che richiama per tensione emotiva e accadimenti quanto succedeva anche in BOYS DON’T CRY . A controbilanciare tanta brutalità il regista inserisce immediatamente la scena più romantica della vicenda, la separazione tra i due ragazzi a una fermata dell’autobus avvolta dalle tenebre della notte, quando il gay in fuga, stroncato nel fisico ma non nello spirito e nella determinazione, lascia l’amico dicendogli ‘Addio, me ne vado. Non mi mancherai’ pausa con sospiro, per ora . Non sapremo cosa succederà alla fine al giovane Goob, quali esiti avranno i suoi turbamenti, se il riavvicinamento alla madre lo porterà ad avere una rivalsa sul rivale più adulto, quali prospettive gli aprirà la sua iniziazione al sesso con la ragazza più affascinante della contrada. Un fermo immagine lo blocca per sempre nella freschezza dei suoi 16 anni, nelle prospettive e nelle possibilità che la vita gli offre, ancora senza rimpianti e per ora senza rimorsi.
Nello stile il film di Guy Myhill rimanda a tanto cinema britannico dell’ultimo decennio (ma anche a tanta fiction seriale tv che ci è arrivata da oltremanica), ma vi si riscontrano precisi riferimenti al modo di girare degli indipendenti americani del Sundance, per le atmosfere fredde, i colori ridotti al minimo in un uniformità di fondo sottolineata dall’ottima fotografia di Simon Tindall. Di certo personale è il modo di riprendere il corpo del 16enne Liam Walpole, quando lo spoglia ad ogni occasione da solo o in compagnia di altri attori a loro volta seminudi, sul bus dove fa casino con gli altri compagni, nei campi dove lavora, nel momento in cui si toglie la t-shirt per tamponare la lesione dell amica ferita, o quando ne riprende in primissimo piano alcuni particolari anatomici (l’angolo dello zigomo sormontato dalle lunghe ciglia piuttosto che l’incavo tra la fine delle vertebre e il nascere del coccige). Ne riparleremo più in dettaglio in occasione dell’intervista programmata col regista nei prossimi giorni.


“METAMORPHOSES” di Christophe Honoré

Il secondo film queer (davvero un opera totalmente queer!) che siamo già riusciti a vedere sugli schermi del festival veneziano è il francese METAMORPHOSES del regista Christophe Honoré , una personale rilettura in chiave contemporanea del capolavoro poetico latino di Ovidio. La cornice è data dal rapimento di Europa da parte di Juppiter (su un tir dalla valenza esplicitamente fallica) e dai racconti erotici che si inanellano e si incrociano l’uno dentro l’altro, le storie della giumenta Io e del guardiano Argo dai 100 occhi, della ninfa Sirinx mutata in canne adatte a dar vita a divine melodie e del dio Pan voglioso e selvaggio, della vecchia coppia di Filemone e Bauci trasformati in alberi intrecciati per la loro generosità verso gli dei, di Tiresia che in base alla sua doppia natura maschile e femminile ebbe da Giunone, per averla smentita, come pena la cecità e da Juppiter la veggenza, le storie di Penteo sbranato dalle menadi, di Ermafrodito – antenato di tutti i transgender contemporanei – dalla doppia sessualità , di Ippomene e di come ingannò Atalanta nella corsa, di Narciso felice fino al momento in cui non avesse conosciuto il suo io più autentico e profondo di tutte quelle creature il cui mito affonda nella leggenda, nella poesia e nella fantasia. Il film è ricco, visionario, coltissimo sia sul piano visivo che su quello musicale (i riferimenti vanno da Mozart a Ravel, passando per la musica pop francese degli anni 60 allo sperimentalismo di Berio), per non dire dei nessi filosofici e cinematografici. Si potrebbe forse affermare senza tema di smentita che non si vedeva nulla di simile dai tempi dei RACCONTI IMMORALI di Borowczyk, ma qui siamo su un piano ancora più ‘intello’ , come direbbero i cugini d oltralpe, con tutti gli annessi positivi e negativi che loro attribuiscono al termine. Anche di questo aspetto riparleremo presto, in quanto abbiamo già ottenuto in esclusiva un intervista col regista nei giorni prossimi e al più presto la pubblicheremo. Per ora basta far nostra una battuta del film rubata a Giunone che apostrofa Juppiter con una domanda: ‘Come mai ti trovo sempre nudo?’ . La rubiamo volentieri e durante l’intervista intendiamo riproporla a Christophe Honoré perchè nel suo film mostra tanti attori e attrici (ma davvero tanti sia sul fronte A che su quello B!) senza alcun indumento addosso, fin dal primo dei suoi racconti quando trasforma Diana spiata da Atteone in uno splendido e inquietante transessuale dal seno prosperoso e dai molti, molti, molti centimetri pendenti.

Sandro Avanzo

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