LA GIORNATA DI MATTHEW BOURNE E DI ERIC DE KUYPER AL FESTIVAL GLBT DI TORINO

Tra i film in concorso il vincitore del Teddy Award KEEP THE LIGHTS ON e il diabolico BEAUTY. Chiara Francini si racconta al pubblico. Un cortometraggio che spezza il cuore: DOWN HERE

CHIARA FRANCINI, MADRINA DEL FESTIVAL, INCONTRA IL PUBBLICO

Record di presenze anche oggi, giornata clou del Festval GLBT di Torino. Alessandro Golinelli, curatore della programmazione, sul palco della grande sala del cinema Massimo gremita di un pubblico che si era fatto più di due ore di coda per entrare, ha ringraziato, quasi commosso, tutto gli spettatori, spiegando che, di fronte ai tagli di budget che il Festival subisce ogni anno, sono solo la grande fedeltà e partecipazione del pubblico che permettono al Festival di poter continuare, dando grande soddisfazione, a tutto lo staff, dell’impegno e della fatica che vi mettono.

Gli eventi della giornata sono stati l’incontro del pubblico con la madrina del Festival, l’amatissima Chiara Francini, che ci ha raccontato la sua storie e le sue aspettative future. Poi l’attesissimo incontro con l’artista Matthew Bourne che ci ha svelato il lungo iter di realizzazione della sua versione filmica del Lago dei Cigni costruito tutto sulle sue coreografie. Interessantissimo l’incontro col regista del bellissimo “A Strange Love Affair”, Eric De Kuyper, presentato nella Sezone Vintage del Festival, che accompagnato dal Direttore Giovanni Minerba ci ha raccontato i dietro le quinte del film. Qui sotto trovate in dettaglio questi momenti.

La nostra giornata da spettatore è iniziata con la visione degli ultimi cortometraggi in concorso, tra i quali un’opera indimenticabile di rara forza espressiva, con la quale iniziamo la nostra rassegna critica.

CORTOMETRAGGI IN CONCORSO

DOWN HERE di Diego Costa Amarante

voto: 10/10

Questo cortometraggio, che dura solo 13 minuti, è di una tale intensità, sia visuale che di contenuto, da meritarsi il nostro premio personale come miglior corto tra tutti quelli visti finora al Festival. Inizia con il primo piano di una donna anziana che entra furtivamente in un locale gay misto. La vediamo inoltrarsi senza vergogna ma con qualche titubanza tra la gente che le invia commenti un po’ stupefatti, avventurarsi nei meandri del locale, spiando con innocenza, mentre appare chiaro che sta cercando qualcosa o qualcuno. Entrata nei bagni delle lesbiche si chiude in una cabina affiancata da un’altra occupata da una giovane ragazza. Si scambiano un timido saluto attraverso la sottile parete, poi l’anziana donna le passa da un fessura una fotografia, con l’immagine di un ragazzino, che, le spiega, essere la foto di suo nipote omosessuale che si è suicidato a 15 anni lasciando un biglietto ai genitori con scritto di non dire nulla alla nonna perchè non potrebbe capire. Subito dopo chiede alla ragazza se può darle un bacio sulla bocca perchè vuole che suo nipoti la guardi da lassù e capisca che lei poteva comprenderlo e dargli ugualmente tutto il suo amore. Poi l’anziana si stende a terra facendo apparire il suo viso nell’apertura in basso tra le due cabine. Altrettanto fa la ragazza e si scambiano un delicato bacio sulle labbre. Scusate se vi ho raccontato anche la fine di questo corto, ma vi assicuro che anche se lo vedrete mille volte non potrete fare a meno di emozionarvi ogni volta come il sottoscritto. Un film che vale un’intera campagna contro l’omofobia.

THE LESSON di Paul Metz

voto 8/10

Siamo in Giappone, un uomo distinto, un manager, frequenta il corso di inglese personale che l’azienda gli offre. Il suo viso è distrutto, sofferente. Così come quello della maestra che ha appena guardato una sua foto di molti anni prima dove appariva al fianco di un bel giovane giapponese, un ragazzo che probabilmente non ha saputo trattenere e che ancora rimpiange, accarezzandone il viso sull’immagine. Ora però la donna deve concentrarsi sull’uomo che ha davanti aiutandolo a migliorare il suo inglese. Scopriremo che entrambi si sono trovati davanti allo stesso problema: la difficoltà di dire ti amo alla persona che amiamo, soprattutto quando è necessario per tenercela ancora vicino. Sorprendente e divertente il momento in cui l’uomo deve rivelare che sta soffrendo non per sua moglie ma per un uomo che sta per abbandonare il Giappone. Bellissima la trasformazione della donna dopo questa rivelazione. Molto applaudito.

SIGUEME di Alejandro Duran

voto 6/10

Cortometraggio ad effetto, con sorpresa finale, che ci racconta molto bene una situazione di battuage all’aperto. Il solito giovane che arriva sul posto e inizia a guardarsi ntorno. Non c’è nessuno, ma poco dopo arriva il solito corridore atleta che gli passa davanti (prendendone le misure) e nel suo secondo giro invece si ferma chiedendogli se vuole seguirlo in un posto più riparato. Qui si spogliano, esplode la fame di sesso, e alla fine si rivelano la reciproca soddisfazione scambiandosi il numero di telefono. Assistiamo poi all’incontro del protagonista, altrettanto focoso, con la sua fidanzata. La scena seguente ci mostra ancora il posto di battuage ma con notevoli e interessanti sorprese. Ben fatto, ma tutto già visto.

TANDEM di Adrian Hume Robinson

voto 6/10

Un giovane gay, non bellissimo ma che in compenso ci mostra subito quanto sia ben dotato, dopo tanta ricerca sembra aver trovato finalmente la persona giusta. Sesso splendido ma anche tanta tenerezza, tante volte ti amo, ti desidero, sei l’unico uomo della mia vita, ecc. Poi si arriva a casa all’improvviso, inattesi, e si trova il nostro amatissimo a letto con uno sconosciuto. Che fare? Si può perdonare quando si capisce che l’amore non è cambiato? Oppure è meglio troncare tutto per evitare che si ripeta? Niente di nuovo all’orizzonte.

LUNGOMETRAGGI

ANOTHER MOVIE OF LOVE di Edwin Oyarce

voto 8/10

Anche il cinema indipendente cileno sta facendo passi da giganti sulle tematiche queer. In questo film che ci sembra non soffra per niente del basso budget a disposizione (che comunque si vede), ci viene raccontato, a mo’ di parabola con tanto di angeli custodi consiglieri, il momento più difficile per un adolescente gay che si scopre innamorato pazzo del suo miglior amico d’infanzia etero. Diego è un ventenne che vive con la madre rimasta sola e quasi alcolizzata (ma assai perspicace). Il suo passatempo preferito è la fotografia, con la quale tormenta la povera madre che però, per farlo felice, cerca di assecondarlo più che può. La sua sessualità è tutta casalinga, aiutata da immagini e tv. Siamo in estate e arriva per le vacanze un suo vecchio amico d’infanzia, Sebastian, che dovrebbe stare nella casa del padre risposatosi con una giovane donna, ma che preferisce stare quasi sempre con Diego. Sebastian è diventato ancora più bello di un tempo, ha un corpo splendido e un viso che meritano di essere fotografati, cosa che Diego non smette un attimo di fare. Intanto la sua passione divampa, soprattutto quando si ritrova sdraiato nel suo letto il corpo seminudo dell’amico. Ma riesce solo a fotografarlo, anche di nascosto, sia con la macchina che con gli occhi che con il cuore. Eppure le occasione non gli mancano (noi ne abbiamo contate sette) ad iniziare da quando l’etero Sebastian, sdraiato sul letto al suo fianco, gli dice che esiste anche il punto G negli uomini, che sarebbe l’ano. Nulla da fare, Diego riesce al massimo a sfiorargli le gambe nude mentre sta dormendo. Il suo dramma interiore esplode quando entra in scena una bella ragazza che sta cercando un campeggio nelle vicinanze… A salvare il nostro eroe arriva poi fortunatamente il suo angelo custode, conosciuto in uno spettacolo erotico in tv, a dirgli quello che deve fare… Film semplice e delicato, che ci porta nel profondo di un intimo viaggio verso la maturità e la realizzazione di noi stessi, con pochi ma ben delineati personaggi. Forse un po ripetitivo nella parte centrale, quando al nostro eroe si presentano infinite occasioni liberatorie che invece non ha il coraggio di cogliere. Ma questo è anche il tema principale del film, sicuramente gia visto altrove ma mai così profondamente e intensamente analizzato.

KEEP THE LIGHTS ON di Ira Sachs

voto 6/10

Il film è stato accompagnato da uno dei protagonisti principali, l’affascinate e giovanissimo Zachary Dorff Booth, mentre il regista Ira Sachs è impegnato a casa per l’arrivo di due gemelli. Zachary ha detto di avere interpretato questo film con molto interesse e piacere, grazie anche all’aiuto e all’amorevolezza di Ira e degli altri protagonisti. Ci ha rivelato che il soggetto del film e soprattutto il personaggio dell’altro protagonista, interpretato dal bravissimo attore europeo Thure Lindhardt (Fratellanza – Brotherhood), sono basati sulle esperienze di vita del regista. Vita che, a dedurre dal film, non deve essere stata molto semplice. Nel film troviamo principalmente due tematiche, una è quella già vista e rivista, della forza distruttrice delle droghe, l’altra, anch’essa non nuovissima, delle difficoltà di mantenere nel tempo una relazione di coppia. Quando un amico chiede ad uno dei protagonisti da quanto tempo stanno insieme e questi gli risponde da nove anni, lui esclama “ma è un miracolo”. I tentativi che entrambi fanno per salvare la loro relazione sono innumerevoli e sinceri (abbiamo persino una scena in cui il compagno arriva a tenergli stretta la mano mentre si sta facendo penetrare da un prostituto). Il dramma esistenziale di entrambi i protagonisti viene presentato in modo chiaro e sentito, dimostrando un’ottima padronanza del mezzo cinematografico, premiato a Berlino col Teddy Aaward, ma il film, nonostante le suddette qualità, ci mantiene estranei alla vicenda, forse perchè già troppo frequentata.

BEAUTY di Oliver Hermanus

voto 9/10

Il film alla fine della proiezione non ha ricevuto nessun applauso, nonostante godesse di una sala stracolma di spettatori. Probabilmente perchè l’applauso di solito non premia le ottime qualitè tecniche di un film e forse nemmeno le ottime qualità espressive quando queste non coincidono con le nostre aspettative. Il film racconta una storia molto dura, difficile da digerire, e solo alla fine ci concede di leggerlo con una morale giustificativa (quando vediamo al tavolo di un bar una giovane coppia gay felice che si bacia sulla bocca), ma insufficente a liberarci subito dal peso che abbiamo dovuto portarci addosso per tutto il film. L’ambiente in cui vive il nostro protagonista, un quarantenne benestante sposato e con figlie, non è dei migliori. Lui stesso è un omosessuale velato che partecipa ad un circolo privato e segreto di gente come lui, dove sfogano in orge gay tutta la loro sessualità repressa. Alla luce del sole sono invece tutti omofobi e razzisti. Potete immaginarvi come vengono trattate, soprattutto a letto, le rispettive mogli. Il peggio però succede quando il nostro gay represso e omofobo crede di capire che il figlio di un suo amico, un bellissimo giovane che sta per laurearsi, sia anch’esso un gay velato. Nello stile di un vampiro che dà la caccia alla sua preda, vediamo che lo segue di nascosto, che lo cerca dappertutto, persino dentro una discoteca gay. Quando lo trova sdraiato a prendere il sole su una spiaggia in compagnia di sua figlia, pensa che sia arrivata l’occasione buona per agguantarlo… Film freddo e terribile come la lama di un chirurgo pronto ad operare, riesce perfettamente a trasmetterci il dramma e la violenza, interiore ed esteriore, del protagonista, delle sue vittime, e dell’ambiente pseudo aristocratico di un Sudafrica ancora troppo legato ai vecchi metodi dell’apartheid. Una grande lezione di cinema e un potente atto d’accusa contro una società illiberale e i suoi prodotti.

(G. Mangiarotti)

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ERIC DE KUYPER CI RACCONTA LA LAVORAZIONE DEL SUO BELLISSIMO FILM “A STRANGE LOVE AFFAIR” presentato nella Sezione Vintage del Festival

Il Direttore del Festival Giovanni Minerba ha introdotto il regista Eric De Kuyper, quest’anno anche uno dei giurati del Festival, dicendo: “Per me è un bellissimo film, di 27 anni fa. De Kuyper è uno dei registi pionieri del cinema Queer, ha fatto pochissimi film, ma tutti molto belli, io ricordo moltissimo questo, poi Casta Diva, e Pink Ulysses, noi quest’anno volevamo proiettare tutti questi suoi film, ma è stato impossibile, su tutti c’erano problemi di diritti e complicazioni burocratiche, e già con questo film abbiamo fatto un piccolo miracolo, e ringraziamo Eric per questo.
Eric De Kuyper si è detto molto felice di essere stato invitato al Festival ed è rimasto molto sorpreso nel vedere ancora molte persone che si ricordano ancora dei suoi film, perché egli ha finito di girare film nel 1987/88. “Riguardo a A Strange Affair, l’ho girato con Paul Verstaten, che ha partecipato come attore ai film precedenti come Casta Diva e Naughty Boys. Volevamo fare un vecchio film, molto sentimentale, “sentimentalissimo… Pensavammo ai melodrammi Hollywoodiani, che noi amavamo, in cui personaggi principali erano donne, e noi pensammo perché non cambiare personaggi principali da femminili a maschili. C’era un film hollywoodiano in cui un uomo si innamorava di una giovane donna e conosceva poi la madre che era stata anch’essa sua amante, e c’era questo conflitto tra madre e figlia. Qui c’è la stessa storia ma con i personaggi al maschile. E’ stato un grosso film per noi. I film precedenti erano stati fatti in 16 mm, questo è stato girato invece in 35mm ed è stato molto costoso per noi. Avemmo la fortuna di avere un grande cameramen francese, Henri Alekan, che aveva lavorato con Jean Cocteau e Marcel Carné, che è stato in grado di girare un film veramente vecchio stile con una pellicola in bianco e nero. Henri Alekan accettò di fare questo film. Ci siamo conosciuti quando facevamo parte della giuria del festival di Salso Maggiore. In giuria c’era anche Demì. Ogni membro della giuria presentava un proprio film, io presentavo Casta Diva. Io dissi, per favore non abbandonate la sala a metà del film, piuttosto restate al vostro posto dormite una quindicina minuti, ma state sino alla fine, così da poter dire ooh che magnifico film. Alekan mi disse che apprezzò molto la mia presentazione, perché il film era veramente soporifero. Per quanto riguarda il cast, che è un po’ speciale, il personaggio principale, l’insegnante, è stato interpretato da un cantante d’opera, penso non abbia fatto altri film, aveva interpretato anche Don Josè nella Carmen di Peter Brook, lo vidi e lo trovai adatto alla parte . Il giovane era interpretato da un vero giocatore di rugby, che non lavorò poi altre parti. Il terzo protagonista è un attore che ha lavorato molto con Fassbinder. Ho fatto un lungo cast in Francia, Inghilterra, Germania e tutti volevano interpretare il professore e non il padre. Chiesi anche a un famoso attore francese Jean Claude Truveau, che però si rifiutò di interpretare un ruolo omosessuale. Un altro aneddoto è che ho codiretto il film con Paul Verstaten, ci alternavamo, io giravo una scena e lui un’altra, il film è stato veramente molto pesante da girare, è stato quasi come partorire un bambino accettato ma non del tutto. Ancora adesso non sono del tutto soddisfatto. Dopo le riprese del film la mia storia di amore con Paul è finita. Non durante il film, durante il quale le cose tra noi andavano bene. Una storia durata sette anni. Paul era stato un mio studente in storia del cinema (proprio come i protagonisti del film).

(a cura di R. Mariella)
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DUE FILM LESBICI E UN DOC QUEER

MOSQUITA Y MARI di Aurora Guerrero

Voto: 7/10

Yolanda è una studentessa modello e sogna di poter andare al college per regalarsi una vita migliore; Mari la vita se la costruisce giorno per giorno come può, tra furti e volantinaggio. Apparentemente le due quindicenni non sembrano avere niente in comune. In realtà hanno molto da imparare l’una dall’altra: Mari l’interesse per la scuola e Yoli quel pizzico di voglia di trasgredire che non guasta mai. Tra le due si instaura quindi subito una forte alchimia, considerato anche il molto tempo che passano assieme, con la scusa di fare i compiti e di prepararsi per gli esami. Nessuna delle due riesce però a confessare i propri sentimenti più intimi, malgrado le svariate scenate di gelosia ogni volta che un ragazzo si mostra interessato a loro. Così, tra altri e bassi e contro il volere delle rispettive famiglie, Mosquita y Mari si vivono la loro tenera amicizia pensando, come ogni adolescente, che durerà per sempre.
Film molto delicato eppure talvolta anche crudo, senza filtri, che riesce a riportare lo spettatore alla memoria le primissime infatuazioni ed esperienze, quelle poi che restano più scolpite nei ricordi di ciascuno.

CALL ME KUCHU di K. Fairfax Wright e M. Zouhali-Worral

voto: 9/10

Essere gay in Uganda significa quasi sicuramente essere condannato a morte, sia dal popolo sia dal Governo. David Kato è ben consapevole di questa aberrante realtà, ma decide comunque di dichiararsi pubblicamente omosessuale ed intraprendere il lento e doloroso cammino di liberazione della comunità LGBT ugandese. Al suo seguito alcuni kuchus (omosessuali), tutti impegnati in qualche modo nella causa, che in coro chiedono la depenalizzazione dell’omosessualità, quando in Parlamento è in discussione una proposta di legge volta ad ampliare il raggio d’azione dell’attuale politica discriminatoria. La goccia che fa traboccare il vaso è un attentato terroristico a Kampala, per il quale, secondo il quotidiano ugandese “Rolling Stone”, la comunità gay è l’unico colpevole. Tale periodico gode, in Uganda, di un’ottima reputazione e di un’ampia diffusione, grazie alla crociata anti gay che ha intrapreso. Ogni giorno infatti vengono sbattuti in prima pagina volti e nomi di persone ritenute omosessuali e che pertanto sono in pericolo di vita. L’attivista David Kato decide dunque di intentare una causa contro il giornale, che non accenna a cessare le pubblicazioni in quanto ha promesso ai suoi lettori ben cento nomi e volti dei kuchus ugandesi. Intanto anche la comunità internazionale comincia a mobilitarsi affinché il governo ugandese si mostri più tollerante e rispettoso dei diritti umani. E’ così che la piccola comunità LGBT dell’Uganda mette a segno le prime importanti vittorie: a “Rolling Stone” è fatto divieto di pubblicare qualsiasi notizia relativa all’omosessualità di chiunque ed è inoltre obbligato a versare 640 dollari a ciascun querelante a titolo risarcitorio. Inoltre il governo blocca la proposta di legge che inasprirebbe la pena per il reato di omosessualità. Purtroppo però i riconoscimenti a livello istituzionale hanno un duro rovescio della medaglia, quello della strada. Lo sa bene David Kato, che comunque dichiara che, malgrado la paura, sarà l’ultimo kuchu a lasciare il paese nel caso le cose si mettessero male per la comunità. E così ha fatto, pagando con la propria vita: David Kato è stato ammazzato a martellate lo scorso gennaio, probabilmente per la sola colpa di essere gay. La comunità LGBT ugandese e il mondo intero ne ha pianto la scomparsa, ma il suo paese non lo ha rispettato neanche al suo funerale, inviando un vescovo che per lui ed il suo stile di vita ha avuto soltanto parole cattive. Nel tentativo di rendergli almeno un po’ di giustizia, e soprattutto di mantenere viva l’attenzione internazionale sull’argomento, questo documentario è in sua memoria.

WISH ME AWAY di B. Birleffi e B. Kopf

voto: 8/10

Il country in America non è solo un tipo di musica: è uno stile di vita, una religione quasi, tra i cui precetti c’è la condanna dell’omosessualità. Chely Wright è cresciuta con il mito della musica country e con il terrore di essere lesbica. Con il passare degli anni e i primi successi nel mondo della musica, Chely ha fatto una scelta: rinunciare all’amore, rinnegando così la propria omosessualità, per la musica e l’arte, senza le quali non avrebbe potuto vivere. Ma si può vivere una vita senza amore, oltretutto celando un segreto così grande? Per molti anni, Chely sembra riuscirci, fino a quando arriva al punto di non potersi più guardare allo specchio. Sull’orlo del baratro, la cantante, ormai famosissima negli Stati Uniti, si rende conto di non poter più continuare a mentire a se stessa, ai suoi cari e al suo pubblico. Decide così di intraprendere un percorso di purificazione, che culminerà con la pubblicazione di un libro e di un nuovo album nei quali parlerà apertamente di sé, fino alle intervista al Today Show e all’Oprah Winfrey Show, durante le quali farà i suoi coming out pubblici. Tuttavia, il mondo della musica country non sembra essere capace di perdonare, o meglio di tollerare, così Chely Wright viene tagliata fuori da ogni manifestazione ed iniziativa relative alla country music. In compenso la cantante partecipa per la prima volta ad eventi legati alla comunità LGBT statunitense e tuttora non si pente di essersi dichiarata lesbica pubblicamente.

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INCONTRO DEL PUBBLICO CON CHIARA FRANCINI, MADRINA DEL FESTIVAL

C.FRANCINI: Ho collaborato con Massimiliano Palmese alla stesura di questi venti motivi per cui vorrei essere un ragazzo gay. Palmese è uno scrittore napoletano che quattro anni fa si è classificato terzo al Premio Strega e ha vinto il Premio Penna e il Premio Montale. Siamo molto amici e una notte abbiamo avuto questa idea e, dato che lui conosce bene questa corrispondenza di amorosi sensi che ho verso il mondo omosessuale, che è qualcosa che non si può spiegare, che si sente e basta. E così, durante questa notte, ci è venuto in mente di stilare una sorta di decalogo che toccasse tutti i vari aspetti che caratterizzano la dinamica tra il mondo omosessuale e la politica e la religione eccetera. Sono così emersi questi venti punti tra il serio ed il faceto, che raccontano questa dinamica. E’ stato davvero molto bello, perché alcuni punti erano abbastanza toccanti secondo me, mentre altri facevano ridere, ma sempre con l’intento di far riflettere e di dire delle cose.

INTERVISTATORE: Sì, diciamo che toccavano più corde. Non è che mentre lo ideavate, mentre lo scrivevate, pensavate anche a qualcosa di più grande, come una sorta di one-woman-show.

C.FRANCINI: Sinceramente a me piacerebbe molto, infatti è stato inscenato come una sorta di mise-en-espasse, con il leggio eccetera. Però considerata anche la risposta, la gioia che ho provato recitando il pezzo, io sarei molto felice. Poi ieri ho postato una prima ripresa amatoriale, perché quella ufficiale deve ancora arrivare, e il filmato ha riscosso molto successo: ho ricevuto messaggi anche da parte di persone che non conosco e che mi ringraziano per quello che ho detto. Io sono felice, perché ci credo davvero.

INTERVISTATORE: Facciamo un passo indietro e torniamo un momento sulla serata di inaugurazione, sulla quale ti chiedo cosa ti aspettavi e cosa invece hai trovato. Che emozioni ti ha procurato stare sul palco? Hai visto che la platea era veramente molto affollata e che il pubblico si è configurato quasi come attore aggiunto della serata.

C.FRANCINI: Io ho trovato una grande famiglia. Sono venuta qui con altissime aspettative e moltissimo è stato quello che ho ricevuto. Credo che si sia creato un rapporto fortemente empatico tra me e il pubblico. Devo dire che io non ero affatto emozionata, anzi, sono molto felice e desiderosa di poter trasmettere quello che a mia volta ho sentito nel leggere questi venti punti. Per me quindi è stata una festa, l’ho vissuta con serenità e con molta gioia.

INTERVISTATORE: Vi siete già incontrati con gli altri giurati, avete visto i primi film? Quali sono le prime impressioni sul Festival al di là della serata d’apertura?

C.FRANCINI: Sì. Francamente lo trovo molto molto organizzato. Penso che la selezione sia ottima, cosa che ho sempre pensato anche negli anni passati quando guardavo il Festival da lontano. Io ero molto molto felice di venire, di essere oltre che madrina anche giurata, perché avrei avuto la possibilità di entrare in contatto con registi e con prodotti secondo me di grandissima qualità, cosa che ho avuto modo di provare ieri sera con la visione di questi due primi film. La giuria è sicuramente variegata e deliziosa, ho fatto amicizia sia con Eric che con Philippe, che sono due pionieri della cinematografia omosessuale europea, e anche con Gaeta, una sceneggiatrice di grande talento, e con Fabio Canino, al quale ero seduta accanto ieri sera e mi sono divertita molto nel commentare. Divertente è anche poter capire come ciascuno di noi abbia una visione completamente diversa e vedere quindi per esempio le espressioni della Gaeta, che ha una mimica molto particolare nonostante sia una sceneggiatrice, era molto buffo e appunto io e Fabio ogni tanto guardavamo lei e i suoi commenti espressivi. Insomma è un gruppo molto molto divertente e molto versatile.

DOMANDE DEL PUBBLICO

G.MINERBA: Quale dei venti punti è quello che ti piace di più?

C.FRANCINI: Probabilmente quello che sottolinea come la parola gay in inglese voglia dire “gioioso” e non certo “diverso”, mentre in greco “diverso” si dice etero. La trovo un’idea geniale, che è venuta in mente a Massimiliano Palmese e che a me è sembrata decisamente molto calzante. Per quanto riguarda gli altri punti, alcuni erano molto divertenti, altri invece facevano più riflettere, come il fatto che Gesù Cristo non abbia mai detto una sola parola contro gli omosessuali, come invece fece Hitler. Poi anche il fatto che mi piace pensare di essere per la famiglia e che la famiglia debba essere concepita come un microcosmo felice, prerogativa non soltanto della famiglia eterosessuale oppure il fatto che sia importante continuare a combattere questa piaga, da me definita come una malattia vera e propria, che è appunto l’omofobia, che come ci raccontano anche gli ultimi casi di cronaca è veramente una piaga che molte volte porta alla morte. Mi viene in mente quel ragazzo calabrese che è stato picchiato ed è finito in ospedale dove gli hanno detto: “Cocco, probabilmente se ti fossi baciato con una ragazza magari non ti sarebbe successo tutto questo, perché sei malato”, invece i malati sono loro.

A.GOLINELLI: Io volevo sapere con quali esponenti del cinema estero ti piacerebbe lavorare.

C.FRANCINI: A me piacerebbe interpretare un ruolo che mi permetta di tirar fuori anche il mio temperamento drammatico e non soltanto il mio lato comico. Ci sono molti registi. Mi piacciono Ozon, Almodovar, Gianni Amelio, Bellocchio. Mi piacerebbe molto anche lavorare con donne, come l’Archibugi.

GIORNALISTA “LA STAMPA”: Buongiorno, volevo chiederle, da giurata, visto che lei è un’attrice, come osserverà le pellicole? Darà un giudizio un po’ più rivolto verso l’interpretazione attorale oppure relativo all’intreccio o alla fotografia?

C.FRANCINI: Io purtroppo non rimango colpita dai tecnicisimi del cinema. Io mi segno per esempio il momento in cui mi sono commossa, il mio giudizio è abbastanza “di pancia”. Ovviamente guardo in particolare l’iterpretazione degli attori, che finora trovo veramente pazzeschi per quanto riguarda i due film di ieri sera. Un giudizio quindi di pancia comunque sempre mediato da un pizzico di
raziocinio.

INTERVISTATORE: Se non ci sono altre domande, io chiuderei qui. Ovviamente tutto il Festival ti ringrazia della tua partecipazione.

C.FRANCINI: Io ringrazio voi!

INTERVENTO DEL COREOGRAFO MATTHEW BOURNE

A.ACERBI: Buon pomeriggio e benvenuti all’anteprima europea di “The Swan Lake” in 3D. Sono molto contento di avere qui con me per presentare il film il coreografo Matthew Bourne. Può spiegarci cosa l’ha spinta a realizzare una versione 3D del Lago dei Cigni?

M.BOURNE: Ho realizzato la prima versione televisiva del Lago dei Cigni nel 1995, che fu trasmessa dalla BBC nell’anno successivo. Da quel momento l’opera è cresciuta ed è aumentato l’interesse nei suoi confronti, a partire dalla zona ovest di Londra fino ad arrivare a Broadway, ed ogni volta che preparavamo lo spettacolo, io aggiungevo qualcosa di nuovo o cambiavo degli elementi, per migliorarlo sempre di più. Così ad un certo punto ho sentito di dover dare allo spettacolo l’opportunità di essere messo su schermo in una versione rivisitata e migliorata.

A.ACERBI: Quali sono quindi le differenze tra la versione televisiva originale del 1995 e questa versione in 3D?

M.BOURNE: Be’ innanzitutto questa è in 3D! Probabilmente le differenze si devono ad una maggiore lavorazione, al fatto che ho potuto curare e migliorare l’opera per molti anni. La versione in 3D è più coreografica, le performance dei ballerini sono più energiche e forti e c’è decisamente una maggior cura dei dettagli. Devo dire comunque che all’inizio ero un po’ restio a lavorare con la tecnologia 3D, perché avevo visto alcuni film in 3D e non mi erano piaciuti quanto la loro versione in due dimensioni. Tuttavia, nonostante la mia diffidenza iniziale, volevo davvero girare una nuova versione del film dello spettacolo e nessuno aveva mai impiegato il 3D per un’opera simile, quindi è stato quasi una sorta di sperimento, per fortuna ben riuscito.

A.ACERBI: Sta pensando di girare la versione filmica anche di altre sue coreografie, di altre sue opere?

M.BOURNE: A dire il vero sì, perché, a dispetto della mia diffidenza iniziale, ho potuto constatare quanto la tecnologia 3D si presti particolarmente per questo genere di opere, quanto dia al pubblico l’impressione di essere al centro della performance, rendendo l’idea dello spazio in un modo che non si potrebbe eguagliare con una pellicola in due dimensioni. La trovo un’opportunità semplicemente eccitante.
Ci tenevo a precisare una cosa riguardo a questa versione del Lago dei Cigni. C’è il mito secondo cui l’opera sarebbe interpretata unicamente da ballerini maschi, anche per i ruoli femminili. In realtà tali ruoli sono interpretati da ballerine donne, mentre i cigni sono tutti ballerini uomini. Questo volevo precisarlo onde evitare che le donne si sentissero in qualche modo offese. Quindi non cercate uomini travestiti: i ballerini sono uomini e le ballerine sono tutte donne.
Spero che vi piaccia. Grazie per l’attenzione.

(a cura di G. Borghesi e R. Mariella)

(Video a cura di R. Mariella e A. Schiavone)

ALCUNE IMMAGINI DELLA GIORNATA

Eric De Kuyper con Giovanni Minerba
Matthew Bourne
Fabio Bo e Chiara Francini
Zachary Dorff Booth
 
 
 
 

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