TOM FORD "Meglio girare film che creare abiti"

Riportiamo l’interessante intervista a Tom Ford apparsa sul numero 4 (17/12/2009) del settimanale SETTE del Corriere della Sera.

CON A SINGLE MAN LO STILISTA TEXANO HA DEBUTTATO A SETTEMBRE, COME REGISTA, ALLA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA, ORA E’ GIA’ TRA I FAVORITI NELLA CORSA AGLI OSCAR. «LAVORARE CON LA CINEPRESA E’ SEMPRE STATO IL MIO SOGNO. SIN DA QUANDO HO INIZIATO A DISEGNARE VESTITI»

«SE DOVESSI PERDERE TUTTI I MIEI BENI SAREI FELICE LO STESSO. LE COSE SEMPLICI SONO LE PIU’ IMPORTANTI»

Tom Ford è unico. Come stilista, icona fashion e provocatore: ha portato Gucci al massimo del picco creativo, ne ha fatto salire le vendite del 90%. Dopo i contrasti con Ppr, proprietaria del Gruppo Gucci, e la sua uscita è riuscito a ottenere risultati anche con le collezioni che portano il suo nome. Un vincente, un visionario, un tornado. A 48 anni Ford, a capo del suo business multimiliardario è un uomo che determina lo stile e l’eleganza come nessun altro. Ora sta promuovendo A single man, il suo debutto come regista e produttore avvenuto a settembre al Festival del cinema di Venezia e dal prossimo 22 gennaio nelle nostre sale. Il film è basato sul romanzo di Christopher Isherwood, incentrato sulla figura dì George Falconer (interpretato dall’attore Colin Firth), professore universitario di 52 anni che si sforza di cercare il senso della vita dopo la scomparsa del suo compagno.

La qualità della sua performance cinematografica (A single man è già tra i favoriti all’Oscar) non ha solo sorpreso gli addetti ai lavori, ma ha rivelato lati ben nascosti della personalità dello stilista.

Mr Ford lei produce lusso, ma ha fatto un film sull’importanza delle cose semplici. Cos’è successo?

«Ho avuto la fortuna di poter avere tutte le cose materiali che un uomo possa desiderare. Verso i 45 anni però mi sono accorto che non ero felice. Stavo attraversando una crisi di mezza età. Ho riletto questa storia ma con occhi diversi. Avevo divorato il libro di Isherwood a vent’anni. Mi aveva colpito. Mi ero preso una cotta per George, il protagonista. Qualche anno fa, mentre guidavo verso il mio ufficio, mi sono reso conto che stavo pensando a lui. Ho voluto riprendere il libro. Farlo da 40enne mi ha fatto scoprire il lato spirituale del racconto: imparare a vivere nel presente, l’importanza delle piccole cose. Mi è venuta voglia di farne un film».

Diventare regista cosa c’entra con la sua professione di stilista?

«Ci sono due aspetti diversi che convivono in me. La moda è il mio impegno commerciale, è anche artistico, ma soprattutto finalizzato alla vendita. Il film è il mio lato emotivo».

Dunque, questa è la prima volta che lei non è interessato al successo di botteghino?

«Mettiamola così: non l’ho fatto per soldi, anche se qui in America il film ha avuto successo. Tu speri che la gente vada a vederlo perché altrimenti vuol dire che non sei riuscito a comunicare quello che volevi. Devi avere chi ti ascolta. Un aspetto molto simile alla moda. E’ inutile vestirsi bene e girare da soli in una stanza. Si può, così però non hai referenti».

Perché proprio un film?

«Bisogna sempre fare cose nuove e poi adoro le sfide. Questo il punto. Del resto ho sempre voluto girare un film. Dà anche più soddisfazione rispetto al creare abiti: dai vita a qualcosa che ha forza, ma ha breve durata e può perdere smalto nel tempo. Un film, invece, dura molto più a lungo».

Le è sempre piaciuto sorprendere. Invece questo film non è provocatorio come ci si aspettava…

«Certo che è provocatorio, ma in modo differente. La moda è provocatoria esteriormente, questo film invece dev’essere autenticamente provocatorio. Quando esci dalla sala dovresti avere qualcosa a cui pensare. Vorrei riuscire a far veder che tutto quello che succede nel mondo accade per una ragione. Tutto è collegato. Accade anche a George, il protagonista del film: c’è un momento della sua vita in cui tutto gli diventa chiaro. Non imparerà altro dalla vita più di quello che ha capito in quel preciso istante. Dopo quella lezione non ha più bisogno di vivere. Così muore. La morte è alla fine di ogni nostro film. Questa è la ragione per cui considero che il film sia la cosa più provocatoria di tutte quelle che ho fatto nella moda. Un sedere in mostra o un pube depilato a forma di lettera “G” possono essere scioccanti. In realtà però solo in apparenza. Mentre mi auguro che A single man spinga chi lo va a vedere a considerare la propria esistenza in maniera più significativa».

Qual è il suo stato d’animo attuale?

«So di non avere bisogno di niente per avere una bella vita. Sono cresciuto in New Messico e invecchiando mi sono reso conto di non aver bisogno di metropoli e di tutto ciò che la cultura contemporanea ci vorrebbe imporre. Sono felice nel mio ranch in mezzo al nulla: il silenzio, cavalcare e vivere all’aria aperta. Credo che se dovessi perdere tutti i miei beni, sarei felice con poche cose, quelle semplici; le più importanti».

Le risulta così difficile vivere a Hollywood?

«Ho fatto fatica ma ho imparato a scindere le due cose. E’ una specie di performance, sono io che interpreto un ruolo. Non sto dicendo che non mi piacciano le belle donne, i bei vestiti e i bei fiori. Ma sono tutte cose che devono restare al loro posto. Sul mio letto di morte non ricorderò un bel paio di mocassini, penserò a una serata passata con qualcuno quando avevo vent’anni e a come mi sentivo bene in quel momento».

Nel film George dice che ogni mattina ci mette un po’ di tempo per diventare se stesso. E lei quanto impiega, dopo il risveglio, a diventare Tom Ford?

«Ci vuole un sacco di tempo per trasformarmi nella persona che gli altri si aspettano che io sia. Proprio come afferma il protagonista del film anch’io devo “indossare” me stesso».

Ha dedicato il film al suo compagno di sempre Richard Buckley. Lui è l’essenza del suo vivere bene?

«Richard è la persona che amo di più al mondo, la persona con cui sto da 23 anni. Richard continua a chiedermi perché ho messo la dedica alla fine del film e non all’inizio. Gli ho spiegato che la mia scelta aveva una ragione precisa: non volevo che la gente pensasse che cercavo di intenerirla. Resta il fatto che lui è il centro della mia vita, ma lo sono anche i miei cani. Mentre scrivevo il film mi sono domandato: cosa ricorderei se dovessi morire domani? Mi sono reso conto che i miei cani sono una delle cose più preziose della mia vita e che mi mancherebbero moltissimo».

di Johannes Bonke e Sven Schumann

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