SCHERMO DELLE MIE BRAME

Anche quest’anno la pregevole rivista cinematografica Segnocinema (N. 152 Luglio-Agosto 2008) presenta un dettagliato resoconto del Torino GLBT Film Festival 23ma edizione, firmato da Claudia Azzalin, che riportiamo fedelmente.

Festival e Rassegne

Da Sodoma a Hollywood 2008

SCHERMO DELLE MIE BRAME

La vertigine del guardarsi dentro al 23° Torino GLBT Film Festival. Retrospettiva Giappone

di Claudia Azzalin

Edizione di buon livello ma sovraccarica (circa 250 titoli). Scommette sull’esplorazione dell’immaginario queer oltre gli schermi/schemi/scherni nella prospettiva di una omosessualità libera e integrata e di un’apertura tematica franca e coraggiosa. Regala vere chicche: firmata da Karim Ainouz Madame Satã, 2002, la rocambolesca biografia di João Francisco dos Santos, omosessuale figlio di ex schiavi neri che si battè contro i pregiudizi e animò i bassifondi bohémien della Rio de Janeiro degli anni’30; la copia restaurata di Mala Noche, 1985, esordio low budget di Gus Van Sant, primo vincitore del festival torinese nel 1986; la premiatissima The Terence Davies Trilogy del 1984 restaurata in versione HD dall’archivio del BFI, una pietra miliare che impose il cinema queer nelle sale d’essai europee; in terra portoghese, la scoperta di Oscar Alves con la breve cine-archeologia (1975-78) di video amatoriali pieni di eccentrica euforia e qualche tristezza.

Poi, il confronto con un allegro universo gay friendly (“etero-flessibili”, “bisex teorici”, “omosessuali non praticanti”). Amori omosex timidi o ardimentosi, confusi o consapevoli, ma sempre col gusto di assaporare la libertà di una scelta. Il bisogno di parlare davvero, come succede ai sei personaggi che condividono un grande appartamento in Barcelona (Un mapa) di Ventura Pons: una lunga notte insonne piena di parole, paure e confessioni che vanno a comporre una “grande mappa delle ombre”, I’anima collettiva di una città ancora ferita dal suo passato. Schermi come spazi sottratti al buio (della solitudine e della disperazione). Schermi per raccontare non solo storie, ma stati d’animo, dunque immagini interiori.

Premio Ottavio Mai all’unanimità a La Leon, esordio dell’argentino Santiago Otheguy (e viene in mente il conterraneo Lisandro Alonso di Los muertos). Cadenze a filo d’acqua sul Delta del Paranà, fiume di confine, “livida palude”. Senso estetico e ipnotico del paesaggio (fotografia in b/n, widescreen e HD). In una dimensione atemporale/ancestrale del mito e delle sue pulsioni basiche, lo studio psicologico su due uomini percepiti come forze contrarie: l’omosessuale Alvaro, giovane pescatore pacifico e taciturno che restaura libri per la biblioteca del vicino villaggio, e il macho El Turu, “orrendo nocchiero” del battello La Leon. Questi emargina e umilia il ragazzo, che per lui incarna il male da estirpare, da esorcizzare (scena notturna dell’abuso, forse sfida alla sua omofobia interiorizzata). Fissità degli sguardi, grandi spazi, lunghi silenzi e l’onnipresenza della morte.

Da qualche tempo assistiamo ad una tensione diffusa: I’analisi dell’elaborazione del lutto – tragitto devastante, privato e imperscrutabile – che si fa centro gravitazionale della narrazione. Gaël Morel vuole forse affrancarsi dall’etichetta di regista gay se esclude da Après lui qualsiasi riferimento/presenza omosessuale tranne un ammiccamento iniziale? Soggetto: il dolore materno di fronte alla perdita di un figlio (1). Camille si prende cura dell’amico, responsabile dell’incidente mortale, ma I’attaccamento va oltre il perdono e si fa nevrotico e quasi morboso. Film troppo sbilanciato sulla Deneuve, che dà prova di un estenuante esercizio di recitazione.

Scandito in Partenza-Assenza-Ritorno e molto parisien Les Chansons d’amour di Christophe Honoré, Premio Speciale della Giuria ex aequo e con tanto di fidanzamento etero, menage à trois, flirt gay. Un film dal soffio tragico e dal fascino poco empatico sulla fragilità della vita e del sentimento d’amore: Ismaël è turbato dall’improvvisa morte della sua ragazza. Film di parole e pensieri cantati (attori e attrici recitano e cantano), dove le canzonette di Alex Beaupain gareggiano con la smania autoriale e citazionista (2).

Il portoghese Luis Filipe Rocha dice: “E’ importante capire cose e persone distanti da me” e ci riesce con la trama meglio strutturata del Concorso, con efficace approfondimento psicologico, dei caratteri, eccellente recitazione e con un titolo dai tanti significati. A Outra Margem/The Other Side di L.F Rocha ha un inizio espressivamente potente e lugubre in montaggio alternato: panoramica su un cimitero e su una bara, una drag queen che canta in playback (la ” regina del fado” Amalia Rodrigues) in un locale notturno, la cremazione e il teschio che si sgretola. L’artista Ricardo/Vanessa Blue ha appena perso il suo compagno e tenta il suicidio. Poi il superamento della perdita si compie nell’incontro “terapeutico ” con la purezza d’animo e di sguardo del diciassettenne Vasco, affetto dalla sindrome di Down che sogna di diventare attore. Si trova. tra due margini/emarginazioni l’umana normalità di questa inedita coppia parentale zio gay/nipote down. Avranno il teatro come luogo di rinascita. E ponti da attraversare. Insieme.

Pusinky di Karin Babinskà, è il primo film a tematica lesbica girato nella Repubblica Ceca. Tre diciottenni solo apparentemente spregiudicate vorrebbero prolungare la loro età almeno per il tempo di un viaggio estivo in Olanda. Dopo l’entusiasmo iniziale e i primi buffi imprevisti, la scoperta (anche traumatica) della sessualità e un sofferto coming out le obbligano a confrontarsi con i pericoli e i dolori del disincanto, con la fine della loro amicizia che è sfaldamento della forza e delle condivisioni del gruppo e passaggio alle responsabilità individuali.

Spinnin’ di Use (Eusebio Pastrana) è dedicato al fenomeno crescente della omogenitorialità. Una coppia gay stabile e affiatata, totalmente integrata nel quartiere, anzi catalizzatrice di amicizie e incontri (qui forse il difetto di troppe sottotrame) smania per avere un bambino. Un film corale che crede profondamente nell’amore e nella ricerca della felicità.

Primo Premio nei Documentari per A Jihad for Love che il giornalista indiano Parvez Sharma ha girato in clandestinità in più Paesi incontrando una minoranza emarginata. I conflitti interiori (“Perché credo nell’Islam se non c’è posto per me?”), lo sforzo dei loro cuori di “lasciarsi andare verso la strada di Dio”, la lotta (Jihad) di pace e liberazione, l’accettazione della propria omosessualità senza dover/voler rinnegare la fede. Un mondo islamico ostracista ma per niente monolitico (pensiamo alla dottrina mistica dei sufi).

Di seguito, le due Menzioni Speciali. Darling! The Pieter Dirk Uys Story (anche premio del pubblico) del giovanissimo neozelandese Julian Shaw, è l’omaggio a una carismatica personalità di omosessuale: il comico satirico impegnato da vecchia data come attivista contro il “genocidio di stato” (l’Aids) in terra sudafricana, dove il primo “virus” è stato l’Apartheid. Oggi lascia un segno nell’animo di migliaia di ragazzi e ragazze che incontra nelle scuole con uno spettacolo gratuito e autofinanziato sulla prevenzione dell’Hiv e dell’Aids, incitandoli a prendersi cura della propria salute e facendoli ridere delle loro paure.

Semplicità e creatività (la tecnica delle foto/immagini che si trasformano in disegni/illustrazioni) da Israele con Behikvot Ahatiba Ahasera/The Quest for the Missing Piece, autobiografico viaggio inchiesta di Oded Lotan sull’identità ebraica e gay, e sul rito intoccabile della circoncisione (buffo il pretesto di andare cercando il suo “pezzo mancante”).

Fuori concorso, atteso il ritorno di Jacques Nolot, vincitore del festival nel 2003. Dice di non essere un regista “perché non oppongo il cinema alla vita”. Quasi autobiografica appunto è Avant que j’oublie la cronaca di sopravvivenza di uno scrittore sessantenne sieropositivo che scandisce le sue ore con psicofarmaci, sigarette, alcol, insonnia, rimpianti e pensieri suicidi. Film sulla morte, sulla mancanza d’amore, sul decadimento fisico e morale di una generazione poco frequentata dalla cinematografia gay, in una Parigi inedita, tra lo squallore del sesso mercenario, i ricordi dei vecchi tempi (con Roland Barthes ai bagni pubblici) e gli stratagemmi per accaparrarsi le eredità dei compagni deceduti. Piani sequenza prolungati e silenziosi. Immensa inquadratura finale di lui en travesti che esita ad entrare nel tunnel nero di un locale a Pigalle. Pessimismo lucido, sarcasmo viscerale, realismo disturbante.

L’omaggio che mancava al festival: “Stanley Kwan: identità e desiderio”, sei titoli del talentuoso autore hongkonghese mai distribuito in Italia (3) che rende visibile l’omosessualità anche come allegoria esistenziale. E il documentario cult del 1996 Yang±Yin: Gender in Chinese Cinema, dà il destro per introdurre la retrospettiva.

Oriente estremo

Dimenticate l’Occidente voi che entrate… Per la prima volta in Europa, una retrospettiva tematica tra vecchia e nuova cinefilia (19 titoli dal 1963 al 2006) per indagare l’omosessualità come chiave di lettura della realtà. J-ender. Big Bang Love in Japan è la bizzarra galassia della produzione di impronta GLBT nel Sol Levante, attraente regno delle contraddizioni e delle contaminazioni che fa convivere tante anime in un gioco di rimandi e di vasi comunicanti tra pratiche alte e basse. E dove sta il fascino di un cinema oscuro, perturbante, inclassificabile? Anche nell’idea che lo specchio in Occidente è oggetto narcisistico, in Oriente è simbolo del vuoto. Le tematiche queer nel cinema sono imprescindibili dall’influsso dei manga e degli anime, terreni privilegiati di fanta-omo-utopie, dell’ideale post-moderno di fluidità, dell’idiosincrasia per la fissità dei ruoli. Vedi il caso del celebre manga e leggendario modello di transgender Berusayu no bara/La rosa di Versailles di Ikeda Riyoko, poi anime popolarissimo.

In mezzo ci sta la versione con attori Lady Oscar, flop del 1978 diretto da Jacques Derny su committenza nipponica e girato nella Reggia di Versailles. Se qui è gioco deliberato sull’ambiguità di genere e il travestitismo, un cult nella comunità lesbo, l’anime capolavoro Il Poema del vento e degli alberi, 1987, di Yoshikazu Yasuhiko, è uno dei capostipiti del genere anime gay con il gusto decadente ed estetizzante per situazioni morbose (tratto da un manga ambientato in un collegio francese nella Belle Epoque). Più di un sentore omoerotico è presente anche nei generi di samurai (Gohatto, 1999, di Oshima) e di yakuza (Gonin, 1995, di Ishii Takashi). Grottesco e psichedelico il film adorato e citato dal Kubrick di Arancia meccanica, ardito nel linguaggio alla Nuberu Bagu, nel contenuto (inversione gay del complesso di Edipo) e nell’ambientazione (quartiere underground dei travestiti di Tokyo, tra droga e prostituzione) Bara no soretsu/The Funeral Parade of Roses, 1969 di Matsumoto Toshio. La rivalità tra il vecchio e il “nuovo” Giappone: la geisha Leda e la bellissima drag queen Eddie (l’attore Peter).

Nel 1963 il maestro Ichikawa Kon che ci ha lasciato quest’anno – dirige Hasegawa Kazuo nel suo 300esimo ruolo per il remake Yukinojo Henge/An Actor’s Revenge. Il protagonista usa la sua arte di onnagata per mettere in atto un piano diabolico di seduzione e rivincita. Il pugnale nascosto nel ventaglio è sintesi mirabile di ambiguità e di doppia anima (Hasegawa riveste anche il ruolo del ladro, il suo alterego virile). Stilizzato, astratto, nello stesso tempo omaggio all’arte allusiva dei travestitismo del teatro kabuki e al cinema moderno e sperimentale (echi occidentali del jazz). Dal grande Tanizaki, il primo dei quattro adattamenti de La croce buddista, storia di una fascinazione sensuale qui raccontata in flashback, e unico titolo saffico presentato: Manji, 1964 di Masumura Yasuzo. Sonoko, casalinga di ricca famiglia, intreccia una relazione proibita con l’ammaliante Mitsuko, ragazza dal look moderno-occidentale, amorale angelo della morte. Stilisticamente statico e glaciale, emana un erotismo decadente e rituale condotto con minuziosa precisione.

Dagli anni ’60 esiste il mercato sotterraneo ma fiorente dei pinku eiga (film rosa), genere softcore specificamente giapponese a basso costo e per spettatori poco esigenti. Prodotto di bassa caratura, grezzo e tecnicamente sporco, mai morboso o voyeuristico (casomai è oltraggio al torpore). Nelle mani della generazione deglì annì ’90 sì fa sempre pìù terreno dì sperimentazione, vedi il caso del filmaker Oki Hiroyuki. Cameratismo omoerotico (gli accoppiamenti notturni tra i tatami del dormitorio) in Kyokon densetsu: utsushii nazo/Beautiful Mystery, 1983 di Nakamura Ganji. Il primo pinku eiga gay della storia è la parodia dissacrante del nichilismo e della Shield Socíety fondata da Mishima. Il sensei e il suo protetto, spossati da una notte di sesso si svegliano in ritardo per il seppuku. Spogliati di dignità eroica, due anni dopo saranno i travestiti Scarlet e Maria.

La sessualità nei film di Saty Hisayasu è soprattutto l’espressione di pulsioni nascoste e represse, covate in contesti di emarginazione urbana e di ipocrisie collettive. Violenza come risposta a un’assenza di realtà. Sadismo come forma di potere e prevaricazione. Pieno di velleità, citazioni e metafore, macabro e feticista Kurutta Butokai/Muscle, 1988 segue la deriva di un uomo ossessionato da Salò di Pier Paolo Pasolini alla paranoica ricerca del suo amante (gli ha tagliato un braccio con un’antica spada giapponese e lo conserva in formalina dentro un barattolo). Pareggerà i conti accecandosi (“masochismo dello sguardo”). Da questi eccessi si discosta Hashiguchi Ryysuke (vincitore dell’edizione 1996) per sottigliezza psicologica e poesia ma anche spregiudicatezza nel ritrarre l’amore gay. Nel film d’esordio e di successo Hatachi no binetsu/A Touch of Fever, 1993 la problematica omosessuale e il kamingu auto (coming out) si impone nella giusta luce.

Míike Takashi mette in guardia sugli inganni della percezione con l’opera-enigma 46-oku nen no koi/A Juvenile Big Bang Love, 2006. Una videoinstallazione psicanalitica, fuori dal tempo e dallo spazio, tra mito e post-apocalisse. Eros e Thanatos pulsano tra utopie di fuga e spettri di luce (l’avvistamento rarissimo del triplo arcobaleno). Supera le venature omoerotiche per esplorare la spirale di un’attrazione più complessa tra due giovanì carcerati, il femmineo Jun (di Gohatto) e il brutale Shiro.

NOTE

(1) – Niente a che vedere con l’insuperato Tre colori – Film blu.

(2) – Omaggio al Demy di Les parapluies de Cherbourg, alla Nouvelle Vague, e magari a Les amants réguliers.

(3) – Torino però fu uno dei primi schermi festivalieri europei ad accogliere il capolavoro Rouge.

Da Segnocinema N. 152 di Luglio-Agosto 2008

Qui sotto la prima pagina dell’articolo di Claudia Azzalin

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