L'AUTOBIOGRAFIA DI RUPERT EVERETT

Denuncia il provincialismo e l’omofobia di Hollywood, l’ambiguità degli attori, ma fa anche autocritica

Rupert Everett ha pubblicato una nuova autobiografia “Red Carpets and Other Banana Skins” (Tappeti rossi e altre bucce di banana), dove si dichiara nauseato dall’ipocrisia e dall’omofobia dell’industria cinematografica. Il libro gli è stato pagato con cifre a sette zeri.
In un’intervista all’agenzia AP dice che alle star hollywoodiane non è consentito parlare, che sono pagate per stare zitte. Così ha pensato di vendicarsi scrivendo queste pagine piene di aneddoti taglienti, caramelle ripiene di veleno, che riguardano molte delle stelle di prima grandezza di Hollywood, da Madonna (che trasuda sex appeal) a Giulia Roberts (bellissima e un po’ pazza) a Sharon Stone (completamente fuori di testa).
Nel libro, una vera manna per gli amanti del gossip, ci sono anche comparsate di Andy Warhol, Elizabeth Taylor, Orson Welles, Bob Dylan, Donatella Versace e tante altre illustri personalità. Everett, gay dichiarato, parla anche delle sue storie eterosessuali con Paula Yates, moglie di Bob Geldof, con l’attrice francese Beatrice Dalle, e con la star hollywoodiana Susan Sarandon. Ammette che il mondo dello spettacolo è diventato per molti l’unico punto di riferimento, impossibile pensare ad altre notizie, prima di tutto bisogna sapere cosa sta succedendo al fondoschiena di Jennifer Lopez o cose simili.
Il libro è anche una lunga confessione di come l’attore sia riuscito a staccarsi dalla cultura e dall’educazione conformista della classe media inglese a partire dall’età di 17 anni quando frequentava un collegio Cattolico. Racconta l’inizio della sua carriera come giovane ribelle e festaiolo, amico di prostitute, drogati, e ladri, ammettendo di essere sempre stato attratto da “eccentrici, sregolati e suicidi”. Questo probabilmente perchè essendo gay “non venivo accettato in nessuno degli ambienti normali che avrei potuto frequentare, così mi rifugiavo dove sapevo di essere accolto amichevolmente”.
Everett rimase molto deluso quando scoprì che il mondo dello spettacolo era uguale a quella “classe media provinciale” che aveva trovato e presto abbandonato nella scuola privata. Lui aveva pensato allo show business come a un tappeto rosso infernale dove vivevano ubriachi, maniaci sessuali, killers e freaks. “Ma non è così, il mio mondo sì, perchè ho caparbiamente cercato di crearmelo, ma non in generale”.
Everett si è spesso lamentato dell’omofobia di Hollywood, intuendo che la sua sessualità gli ha impedito di ottenere molti ruoli da protagonista che invece venivano offerti al suo compatriota Hugh Grant.
Ma nel libro c’è anche molta autocritica. Egli appare come una persona crudele, un po’ mostruosa, che confessa di avere “mentito su tutto, sulla mia età, sul mio nome, sul mio passato”. Pensa che in qualsiasi attore ci sia da qualche parte un buco nell’identità personale che si tenta di riempire con atteggiamenti fittizi, con imposture.
Ammette che anche il successo è ambivalente. Dopo “Il matrimonio del mio migliore amico” dice che era indicato per strada come “il gay di quel film”. Ha sempre cercato di essere preso sul serio come attore, si lamenta della superficialità di Hollywood e confessa di avere dovuto fare ricorso a iniezioni di Botox per mantenersi magro e di bell’aspetto. Lo richiede il lavoro di attore. Gli zigomi scolpiti sono intatti e i grandi occhi scuri sono ancora luminosi come non mai.

In questi giorni sta viaggiando nel mondo per conto del Global Fund Against AIDS, Tubercolosi e Malaria e dice che il mondo dello spettacolo non lo interessa più tanto. “A essere onesti per me non è più il tempo dello show business” ma dice anche che sta iniziando un lavoro teatrale, un film e “un paio di cose in tv”.
“Mi piace uscire in strada, andare al bar, al club. Penso che un attore debba essere come un culturista. La sua vita dovrebbe essere come quella di un muscolo, sempre in esercizio e sotto flessione. Facendo qualsiasi cosa, sperimentando tutto il possibile.”
“E’ stata una mia decisione consapevole quella di vivere come le persone che più ho ammirato sullo schermo, Marlon Brando, Montgomery Clifts e James Deans. Si sente che questi personaggi hanno sperimentato ogni cosa. I loro occhi erano scioccanti, languidi, vivi e ardenti come carboni nello stesso tempo. E questo grazie alle loro esperienze, ad una vita vissuta come se fosse un attrezzo di lavoro. Anch’io voglio vivere in questo modo”. (Advocate/AP)

Qui sotto la copertina del libro (Ed. Time Warner Books UK, 12 £ su internet)

Effettua il login o registrati

Per poter completare l'azione devi essere un utente registrato.