Carlo Terron

Carlo Terron
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  • Luogo di nascita Verona
  • Luogo di morte Milano

Carlo Terron

Autore teatrale e critico drammatico (Verona 1910 – Milano 1991), omosessuale.

Drammaturgo di straordinaria prolificità, con più di sessanta opere all’attivo, critico teatrale dei quotidiani “L’Arena”, il “Corriere della Sera”, il “Corriere Lombardo” e “La Notte”, operatore culturale, direttore dal 1952 al 1962 del settore spettacolo alla Rai, ma anche apprezzato psichiatra, Carlo Terron conosceva assai bene l’arte di indagare i mali della società contemporanea e la psiche individuale e collettiva della gente. L’intera sua opera teatrale si alimenta a queste due fonti. Cercava di risvegliare la responsabilità di ciascuno di noi verso i valori della vita, dell’amore e del sociale. Sceglieva spesso di analizzare situazioni trasgressive, al limite del grottesco, per sviluppare un modo di far teatro che avesse sempre spirito critico, satirico, d’indagine, di approfondimento dei comportamenti umani. Per riuscire nel proprio intento Terron fotografava il nucleo principale su cui si fonda la famiglia e la società: vale a dire la coppia e i relativi rapporti che ne scaturiscono, da cui nascono gioie e dolori, amori e odii. Il suo teatro ha saputo esprimere con notevole forza linguistica ed etica soprattutto le inquietudini delle generazioni del dopoguerra, di cui ha colto le contraddizioni e le debolezze più nascoste. Nato nel 1910 a Verona, già durante gli anni del Liceo scientifico iniziò a collaborare come critico teatrale e d’opera al quotidiano l’Arena. Con due saggi sulla difesa del vernacolo in teatro e sul melodramma vinse i “Littoriali della Gioventù” del 1924. Si laureò nel 1933 in Medicina all’Università di Padova, con specializzazione in malattie nervose. Subito dopo venne nominato primario dell’Ospedale psichiatrico di Verona. Partecipò alla guerra d’Albania come ufficiale medico e pose le basi per la creazione del reparto psichiatrico dell’ospedale di Tirana.

Fatto prigioniero dai tedeschi nel 1942, nel corso del viaggio verso la Germania, durante una sosta a Trieste riuscì a fuggire. Nel giugno del 1945, Carlo si trasferì a Milano su invito di Aldo Palazzi per collaborare al Tempo. Nel periodo di intensa produzione critica e teatrale che seguì a questa prima proposta, Terron non abbandonò l’attività di medico, lavorando nella metropoli lombarda presso la mutua di piazza Firenze. Diventò successivamente redattore del Corriere della Sera e collaboratore al mensile La lettura. Nel 1949 vinse il premio Riccione con la commedia Giuditta, che lo consacrò a pieno titolo nell’ambiente teatrale. Iniziò la collaborazione al Corriere Lombardo, a Sipario e a Il Dramma. Nel 1952 venne chiamato da Sergio Pugliese a partecipare alla creazione della Rai. Fece numerosi viaggi a Londra e Parigi, dove la televisione era già attiva. Nel 1954 fu nominato direttore del settore prosa e musica della Rai, rimanendovi fino al trasferimento della sede da Milano a Roma. Negli stessi anni partecipò quale membro della commissione giudicante al premio “Renato Simoni”, istituito dai comuni di Verona e Milano in memoria del grande critico.

Dal 1955 al ’77 collaborò al quotidiano La Notte. Nel1960 vinse il premio IDI (Istituto del Dramma Italiano) con la commedia Lavinia tra i dannati. Nel 1962 iniziò a dirigere il teatro di Palazzo Durini a Milano, rinnovandone il repertorio e inserendo nei programmi novità italiane e straniere. Morì a Milano nel 1991. Sorretto da una scrittura virtuosistica e funambolica e da una espressività satirica corrosiva, Terron compose oltre 60 testi teatrali. Nel1927-28 scrisse I morti, allestito al Teatro Nazionale dei Guf di Firenze nel 1941, cui seguirono l’anno successivo I denti dell’eremita (beffa rusticana in tre atti, storia di una eredità contesa da gente avida e piena di pregiudizi, fra imprevisti ed equivoci), e poi La libertà (parabola in un atto) , La commedia del papà, Il grillo nel carcere, Binario cieco (I matti dei sogni) nel 1946, in cui vicende di gente comune si intersecano a caso durante l’attesa in una stazione ferroviaria, Il diamante del profeta, rappresentato al Teatro Valle di Roma dalla compagnia di Peppino De Filippo nel 1947. In quel periodo l’autore produceva più di una commedia o tragedia all’anno: nel ’48 Il re s’annoia e Obbedienza pronta, cieca, assoluta, nel 1949 La moglie di Don Giovanni e Giuditta, quest’ultima messa in scena per la prima volta nel ’50 al Teatro Nuovo di Milano dalla compagnia di Diana Torrieri e Tino Carraro (tragedia in tre atti sul tema della crisi europea e della guerra, mentre i personaggi agiscono in una pianura occupata da invasori). Lo stesso anno toccò anche a Luna d’agosto al Teatro del Ridotto di Venezia con la compagnia di Cesco Baseggio, e al Processo agli innocenti, allestita al Teatro Odeon di Milano dalla compagnia di Evi Maltagliati e Tino Carraro. La vicenda: durante e dopo l’ultimo bombardamento di una delle imminenti guerre l’autore analizza i rapporti fra il progresso della scienza e l’utilizzazione bellica della nuove scoperte. Uno scienziato, Mobel, dedica tutta la propria esistenza alla scoperta di energie che possono diventare micidiali per la pubblica incolumità e che i politici si affannano ad esaltare per le loro trame guerrafondaie. Ma ecco che un errore di procedimento lo porta a scoprire un’energia nuova che, anziché distruggere, rende innocui tutti i mezzi offensivi. A seguire Non c’è pace per l’antico fauno nel 1952, (vaudeville in tre atti, una sorta di gara allo smantellamento più disinvolto ed elegante dei pregiudizi formali), Avevo più stima dell’idrogeno ovvero lo sciopero delle bombe nel 1955, Ippolito e la vendetta in scena al Teatro Quirino di Roma con compagnia di Vittorio Gassman ed Elena Zareschi e Colloquio col tango, ovvero “la formica”, recital di Paola Borboni al Teatro Gerolamo di Milano, entrambe nel 1958. Bis l’anno seguente con la Borboni ne La vedova nera interpretata ancora al Gerolamo, per triplicare nel 1962 con Eva e il Verbo, un altro recital recital di Paola Borboni questa volta al Teatro di Palazzo Durini a Milano. Intanto aveva debuttato la tragedia Lavinia fra i dannati con la compagnia di Anna Proclemer e Giorgio Albertazzi nel dicembre del 1959 al Teatro Odeon di Milano.

Nel ’63 debuttò Non sparate sulla mamma, rappresentata assieme alla commedia I narcisi col titolo Narcisi e Mamme dalla compagnia del Teatro delle Novità, interpreti Lia Zoppelli, Lina Volonghi, Antonio Venturi, Corrado Pani, regia Edmo Fenoglio al Teatro S. Erasmo di Milano. La trama: Clotilde e Maura sono due signore perbene, dedite al culto della maternità anche prima degli anni roventi della menopausa senza più marito e in ottimo stato di conservazione, ma soprattutto sono due mamme, ansiose, possessive e totalizzanti: i loro due figli maschi diciassettenni si frequentano e sono amici inseparabili, ormai in quell’età critica in cui ci si avvicina alla sacra iniziazione dell’amore. Da questa temuta prospettiva deriva alle due donne una grande angoscia, che esse si confidano: è l’angoscia di perdere definitivamente i loro figli ed insieme il terrore di veder sfumare l’ultimo, unico oggetto del loro amore, unito alla preoccupazione per l’imminente destino dei due ragazzi. Clotilde e Maura decidono insieme di evitare a Massimiliano e Guido di conoscere l’amore nell’abiezione e nella volgarità. Saranno così loro due a compiere l’inevitabile iniziazione dei due ragazzi, ognuna con il figlio dell’altra: giungeranno alla geniale invenzione della maternità incrociata o meglio all’incesto per interposta maternità. Da questa scelta derivano per Clotilde e per Maura situazioni che sfuggono loro di mano, compresa la non calcolata gravidanza di Clotilde, che riporta le due amiche alla realtà, giusto il tempo di trovare una soluzione accettabile. Ancora nel ’63 furono allestite L’amica della tigre o sennò i parti e Notti a Milano, che racconta facce inedite della prostituzione, con un’incursione attenta al sottobosco di quel mondo, dai protettori ai clienti, a Tosca, la protagonista, che è la nuova versione di una malavita diventata funzionalità professionale), portata alla “prima” dalla compagnia di Arnoldo Foà e Lauretta Masiero al Teatro Odeon di Milano. Nel ’65 toccò a Le piume ovvero una grande famiglia con la compagnia di Mario Scaccia: un ordito grottesco e surreale si dipana nella Venezia più decadente degli ultimi anni Sessanta. Qui le secolari miserie di un’aristocratica famiglia si coagulano per esplodere in un esilarante finale in cui amorazzi, follia e passione trionfano su tutto.

Sempre al ’65 risale La sposa cristiana o anche camera 337 , portata all’esordio dalla compagnia “Informativa ’65”, Due volte Amelia ovvero ombre care oppure i vedovi e L’arrivista ovvero il Nando del 15° Km . Terron proseguì a scrivere testi teatrali a ritmo incessante: nel ’66 Il figlio del mare ovvero gli smemorati , nel ’67 Il tempo addosso e Stasera, arsenico ovvero la commedia del caffè (gioco di due vecchi coniugi che scherzano con la morte fingendo di avvelenarsi: un rito macabro sempre al limite dello scherzo con la paura che si trasformi davvero in realtà) , nel ’68 Il complesso dell’obelisco ovvero le risorse della psicanalisi e Si chiamava Giorgio ovvero l’oggetto misterioso, quest’ultimo interpretato da Paola Borboni, nel ’69 Baciami Alfredo con la compagnia di Alberto Lupo e Valeria VaIeri al Teatro della Pergola di Firenze. Qui Parigi d’inizio scorso secolo è la protagonista: arriva festoso il Novecento e un vortice di entusiasmo investe la ricca borghesia del tempo; le meraviglie del progresso fanno scoppiare l’illusione che l’uomo sia in grado di dominare ormai il suo stesso destino. Si vanno nel contempo diffondendo anche i germi della guerra imminente, che restano tuttavia sconosciuti o ignorati là dove esplodono i tappi di champagne, mandati al cielo da chi affolla i concerti dei cafè-chantant o applaude gli spettacoli di gran moda. Nascono infatti in quel clima gaudente il teatro del “vaudeville” e le mirabolanti invenzioni della “pochade”, animate da storie vorticose di amori nascosti e segrete follie avviluppate in intrecci ingegnosi. È l’esplosione di un teatro capace di costruire, con la precisione dell’orologiaio, espedienti e meccanismi comici di strabiliante virtuosismo, cui non a caso tanta parte dello spettacolo continua ad attingere da oltre un secolo ormai. Il testo di Terron reinventa uno degli intrecci tipici del genere, allegramente mescolando equivoci, colpi di scena, riconoscimenti e rivelazioni a sorpresa. Ne è inizialmente coinvolto il giovane Pincon, che, sordo ad ogni richiamo del fido Charles ai sommovimenti sociali in atto, e trascinato invece nei vortici della bellavita parigina dal gaudente Lamantille, si ritrova travolto dalla passione per il fascino gioioso dell’incantevole FloFlò. In realtà egli contemporaneamente coltiva segrete aspirazioni ad un tranquillo matrimonio. E di quelle prontamente approfittano l’aspirante suocera Clotilde e la di lei figlia Lucille, che ha da poco abbandonato il tormentato wagneriano Camaret. Con la velocità e la leggerezza del gioco teatrale, tutti sorprendentemente si ritroveranno a una festa nuziale, dove, scoprendo segrete identità, incontreranno anche un insospettato dongiovanni, un Colonnello da operetta, una scaltra cameriera, e poi ancora la proprietaria d’uno strano albergo per divorziande, che sembrerà costruito apposta per dipanare alla fine ogni intreccio.

Lo spensierato desiderio di vivere un sogno, che continuamente emerge dal comico affannarsi dei personaggi va a scontrarsi con lo scoppio della guerra incombente, che giungerà per loro improvviso e inaspettato, fragorosamente rivelando, alla fine, che tutto era soltanto “un’illusione, e nulla più”. Altra commedia di successo fu nel ’72 Le vocazioni sbagliate con Elsa Merlini. Dopo una lunga pausa dovuta a problemi di salute, l’attività creativa di Terron riprese negli anni Ottanta con intensità: nel 1981 Ecco Nerone ovvero un personaggio in cerca d’autore interpretato da Mario Scaccia al Teatro Piccolo Eliseo di Roma, nel 1982 Rose per Ecuba, nel 1983 Rissa col diario (autopsia di un matrimonio), nel 1984 i tre testi Il rito, Diversi si nasce, normali si diventa ovvero la commedia degli odori e Come nasce un casinò ovvero l’enculé magnifique (protagoniste due famiglie: amici i padri, amiche la madri, amici i figli. Ma i padri sono amici particolari, protagonisti ogni fine settimana di un singolare rito: si travestono e recitano, in gara, fantasiosi psicodrammi. I due trovano il modo, così, di confessare, dentro alla finzione, le loro verità), nel 1987 Devirilizzando si vince o meglio la grande abbuffata di nuvola d’oro, nel 1988 Maternità , nel 1989 le quattro commedie Ma, insomma, Jago che intenzioni aveva? , Vita senza Tòbi ovvero la spiegazione rimandata, Le tre settimane di Luca La Costa ovvero il guinzaglio corto, Le ascelle verdi ossia: la regola è l’eccezione, o anche: ho ritrovato Berto, nel 1990 Stupro per Tutankhamon o sennò la commedia degli estranei, pubblicata su Sipario col titolo Il fascino indiscreto dello scandalo ovvero la commedia dei benché. Il drammaturgo, veronese di nascita, ma milanese d’adozione, tradusse anche e curò l’adattamento di decine e decine di commedie di classici come Shakespeare, Dumas, Tolstoj, Balzac, Veber, Molière, Beaumarchais, De Rojas, Machiavelli, Feydeau, Hugo, Cocteau, Strindberg, Ionesco, Coward, Giraudoux. Terron ha goduto di un ottimo successo di critica e pubblico negli anni ’50, specialmente grazie alle tragedie.
Su tutte spiccano – per l’altezza morale e la trama drammaturgica – Giuditta e Processo agli innocenti Anche commedie come Non c’è pace per l’antico fauno, Notti a Milano, Non sparate sulla mamma ebbero un notevole riscontro, ma uno straordinario successo hanno avuto tutti i monologhi scritti per Paola Borboni e da lei interpretati dal 1958 al ’72 ( Colloquio col tango – anche con il titolo La formica -, Eva e il verbo , La vedova nera e Si chiamava Giorgio ).

Felice eccezione è stato anche il remake del vaudeville di Feydeau, Baciami, Alfredo. Terron scrisse pure sceneggiature cinematografiche: nel 1949 Canzoni per le strade, con Luciano Tavoli, Carlo Ninchi, Antonella Lualdi e Vera Bergman. La sinossi: A Milano, alcuni mendicanti hanno formato una specie di confraternita, capeggiata da un certo Carlone, buon uomo in fondo, che ha con sé la sorella Anna, una povera ragazzina cieca. Un giorno Carlone salva un mutilato, che ha tentato di mettere fine ai suoi giorni nel Naviglio; le cure di Anna lo riportano del tutto alla vita. Carlone, che ha una fertile fantasia, decide di trasformare la confraternita in una specie d’orchestrina girovaga. Il disco d’un celebre cantante, in un grammofono nascosto, fa credere al pubblico che uno dei mendicanti sia un artista di merito. Il tentativo ha successo: un ricco organizzatore di riviste esprime il desiderio di scritturare la troupe. Durante un’audizione il disco si rompe nel grammofono nascosto; ma il mutilato salva la situazione cantando egli stesso. Si scopre così ch’egli è il celebre cantante Luciano Landi, del quale il disco aveva registrato la voce. Durante le prove della rivista, Luciano riconosce nella soubrette la donna, ch’è stata la causa della sua rovina ed è ora l’amica dell’impresario. Il mutilato non vorrebbe più cantare, ma si commuove di fronte alla disperazione di Anna. Con la collaborazione di Luciano Landi, la rivista ha un successo trionfale. Anna potrà farsi operare, riacquisterà la vista e sposerà Luciano.

Terron scrisse nel 1962 la sceneggiatura del film La leggenda di Genoveffa con Elena Borgo, Rossano Brazzi ed Enzo Fiermonte. La trama: Sigfrido conte di Treviri, preso d’amore per la bella Genoveffa di Bramante, la sposa e la conduce nel suo castello. Dopo qualche tempo Sigfrido, dovendo partecipare, coi suoi vassalli, alla crociata, è costretto a lasciare la sposa, che affida alla custodia di Golo, suo scudiero. Rimasto assoluto padrone, nel castello del suo signore, Golo, segretamente innamorato di Genoveffa, cerca di farla sua. Esasperato per le ripulse della donna, si vendica, suscitando contro di lei ingiuriosi sospetti, ed intercetta i suoi messaggi allo sposo.
Ma in ogni caso Terron fu soprattutto uno dei più significativi critici teatrali del Novecento. Di lui Carlo Maria Pensa così scriveva: “Ogni cronaca di Carlo Terron è di per sé una pagina della piccola storia del teatro, dal dopoguerra agli anni Ottanta, con tutti i “nostri entusiasmi e i nostri scoramenti”, riassumeva egli stesso quando ancora aveva dinanzi a sé alcuni lustri di attività, “i nostri consensi e i nostri dissensi, i nostri inni e le nostre stroncature, i nostri rigori e le nostre indulgenze, e le nostre adesioni e le nostre polemiche, le nostre giuste battaglie e i nostri inevitabili errori”. Terron conosceva perfettamente, senza mai fallire una volta, come catturare, fin dalle prime righe delle sue cronache, anche il lettore che domani sarebbe o non sarebbe stato spettatore, conducendo però, sotto sotto, un discorso rigorosamente critico. Importante resta la conoscenza profonda che, anche grazie al suo impegno di commediografo, egli aveva del teatro, del lavoro teatrale, della fatica dell’attore, delle strade percorse per arrivare all’esame finale sul palcoscenico. Dopo di lui, più nessuno come lui”. Mentre Giorgio Pullini così tracciava l’analisi della sua attività drammaturgia : “In Carlo Terron l’Italia ha il suo Anouilh del dopoguerra e il commediografo piú vitale, dopo Ugo Betti ed Eduardo De Filippo, fra i “postpirandelliani”. E, invece di “dopo”, potremmo pur dire “accanto”, perché fra loro, piú che una vera e propria distanza di valore, sta una differenza di stile. Hanno, cioè, sviluppato elementi diversi della problematica contemporanea, dal terreno di un’angoscia esistenziale prevalentemente lirica in Betti, a quello dell’incontro spettacolare fra motivi pirandelliani e la tradizione popolare napoletana in Eduardo, a quello di una ironizzazione amara di tutti i convenzionalismi della morale borghese sul filo lucido dell’intelligenza critica in Terron. Lirismo, spettacolo e intellettualismo hanno cooperato così a sviluppare e prolungare il verbo pirandelliano, che nella sua mirabile unità già li conteneva tutti in una inscindibile fusione.

Dalla tragedia al vaudeville Terron ha percorso l’intero itinerario della gamma teatrale. Ha frantumato delle false fortezze e le ha rimpiazzate con le armi a doppio taglio dell’analisi e dell’ironia, portando ad estremi risultati l’evoluzione del teatro italiano della crisi esistenziale. La coscienza di un pessimismo sottinteso è costante, e conferisce spessore drammatico, magari allusivo, a molte battute. E tutti i personaggi, i più fatui e i più dolenti, i formalisti e gli spregiudicati, a questo fondo di pessimistica rassegnazione attingono la sostanza della propria forza drammatica, traducendola in un dialogo smagliante di ritmo e, spesso, frizzante di malizioso divertimento”.

Franco Manzoni su http://www.leadershipmedica.com

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