• G. Mangiarotti

Marigold Hotel

Arrivato da noi quasi in sordina, ma dopo un ottimo successo in patria (U.K.) dove ha raccolto quasi 3 milioni di spettatori, “Marigold Hotel” è stato per noi una graditissima sorpresa. Il film, del regista di “Shakespeare in Love”, John Madden, quasi dimenticato dopo quel sopravvalutato film, deriva da un romanzo di Deborah Moggach (“Mio suocero, il gin e il succo di mango”), e si avvale della sceneggiatura di Ol Parker che qualche anno fa debuttò anche alla regia col film lesbico “Imagine me & you”. Il film, sebbene duri più due ore, è sempre scorrevole, piacevole, forse un po’ troppo movimentato nel finale, contrariamente al passo iniziale e centrale del film, lento quanto basta per farci assaporare le reazioni dei vari protagonisti, tra l’ironico, il sorpreso e il meditativo, di fronte ad una situazione del tutto nuova e non proprio in sintonia con le loro aspettative.

I protagonisti del film sono sette persone anziane che partono dall’Inghilterra per recarsi in India (ex colonia britannica) nella speranza di risolvere in qualche modo i loro più assillanti problemi. Diciamo subito che, grazie soprattutto alla notorietà e alla bravura degli attori, veri mostri sacri del cinema inglese, per tutto il film quasi non ci accorgiamo di stare seguendo delle vicende di anziani. Le loro storie e i loro sentimenti possono appartenere a tutti, indipendentemente dall’età. Il sesso e l’amore sono ancora i principali ingredienti della loro esistenza.

Tra tutte le singole storie raccontate, quella gay è senz’altro la più approfondita e coinvolgente, probabilmente anche perchè la meno scontata. Oltre ad essere l’unico motore drammatico del film, che comunque rimane una commedia leggera in pieno stile british, venata da una leggera malinconia che fa da sottofondo a ironiche e divertite situazioni.
Graham (un bravissimo Tom Wilkinson) è un Giudice dell’Alta Corte che finalmente decide di andare in pensione. Non sappiamo come sia stata la sua vita da gay in Inghilterra. Ma vista la decisione di abbandonarla per ritornare dopo 40 anni nell’India dove aveva trascorso la sua prima giovinezza, supponiamo che non sia stata delle migliori.
Nonostante sia il personaggio più malinconico del gruppo, viene da tutti accolto molto bene, anche per il prestigio della sua ex professione. Curiosi e divertenti i vari coming out che decide di fare, qualcuno per necessità (la più antipatica del gruppo, peraltro in compagnia del marito, s’innamora di lui), altri per affinità spirituale (una mesta Judi Dench, in conflitto con un deludente passato), altri quasi per ritorsione (una Maggie Smith sfacciatamente razzista). Il più intenso e partecipato, quello con Judi Dench, avviene senza che pronunci mai la parola gay od omosessuale, ma raccontando semplicemente la storia del grande ed unico amore della sua vita. Agli altri invece butterà in faccia la parola gay, lasciandoli senza parole, o dichiarerà apertamente di amare gli uomini, eliminando qualsiasi ambiguità. Nessuno comunque che manifesti una palese omofobia, positivo frutto di una moderna Inghilterra che ha saputo riscattarsi (anche con le unioni civili gay) da secoli di persecuzioni omofobe.
Scopriamo così che il nostro Graham è tornato in India proprio per ritrovare quell’uomo che allora ventenne aveva acceso il suo cuore. Non possiamo raccontarvi altro per non rovinarvi il piacere delle sorprese, vogliamo solo dirvi che rivivrete il momento clou di Brokeback Mountain, con piccoli ma sostanziali aggiornamenti. Preparate i fazzoletti.
Trattandosi di una commedia è d’obbligo un lieto fine (anche la storia gay ha, a suo modo, un lieto fine) in sintonia col leitmotiv del film che vuole dimostrare quanto sia vero il detto indiano per cui “alla fine si sistema tutto. E se non è tutto sistemato, significa che non è ancora arrivata la fine“. Peccato che per farlo il film acceleri troppo, trovi soluzioni poco credibili, e si trasformi in una pantomima stile sit-comedy. Peccati comunque perdonabili, e forse necessari per dare uno sbocco più commerciale al film. Film che a nostro giudizio alza di qualche gradino la carriera di un regista finora ritenuto di routine, sia per la capacità di dirigere tanti autori eccellenti (oltre a Tom Wilkinson sono indimenticabili Maggie Smith, Judi Dench e Bill Nighy) che per aver saputo coniugare temi importanti come il bilancio di una vita (“Il passato non torna più, non importa quanto lo desideri“), la necessità di ricominciare senza darsi per vinti (la parabola dell’hotel che si unisce a quella dei suoi clienti), l’incontro di diverse culture (commovente l’evoluzione del personaggio di Maggie Smith), ecc., con la quotidianità e le contingenze di tutti i giorni.


autore: R. Schinardi (Gay.it)
voto: 
Tediosello e incartapecorito il viaggio esotico diretto da John Madden su sette anziani inglesi tra cui un giudice cardiopatico gay alla ricerca del suo amore di gioventù. Bravi attori, storia fiacca
È un trend del cinema gay contemporaneo, e apparentemente ossimorico: vecchiaia e omosessualità non sono mai andate d’accordo – se non sul grande schermo – vuoi perché nella terza età la sessualità sfiorisce e resta l’"omo", spesso solo; vuoi perché la società contemporanea impone un modello queer atletico, giovanile, impermeabile agli acciacchi del tempo; vuoi perché gli anziani, duole dirlo così, brutalmente, comprano poco e ‘si vendono’ ancora meno.
L’avevamo già notato nel commovente Beginners di Mike Mills (acquistabile in dvd, con making of e commento del regista tra gli extra), dove però un eccelso Christopher Plummer premio Oscar modulava tristezza e brio vitale col coming out in extremis di un vedovo malato di cancro e, contro ogni tendenza, si accaparrava l’amore di un aitante giovinotto nonché di un affiatato gruppo di sodali. Ma anche nel basco lesbo 80 egunean, riscatto post-ospedaliero di due signore, una contadina e una musicista in età, che riscoprono dolcemente un’amicizia amorosa delicata e rincuorante.
Sulla scia di queste tenere storie dalle tinte argento si colloca la smunta commedia drammatica Marigold Hotel di John Madden tratta dal romanzo These Foolish Things di Debora Moggach, esotica fuga di sette pensionati inglesi verso un paradisiaco resort indiano di Jaipur, in Rajashtan, che si scopre essere mezzo fatiscente e bisognoso di una rapida risistemata (il gestore è interpretato da Dev Patel, il protagonista di The Millionaire).
L’unico della compagnia ad essere già stato nella terra della spiritualità per antonomasia è il benestante Graham (Tom Wilkinson), distinto Giudice dell’Alta Corte in pensione e cardiopatico, il cui vero problema di cuore è però ritrovare l’amore gay di gioventù con cui aveva passato i migliori momenti della sua vita.
Un personaggio positivo che meritava qualche scavo di sceneggiatura in più ma che il notevole Wilkinson – candidato all’Oscar per Michael Clayton e In The Bedroom – ripulisce da ogni vezzo di maniera, in particolare quando si deve confrontare con l’inattesa moglie dell’amore ritrovato, scena sul crinale del ridicolo involontario che viene invece risolta con grazia e pudore.
"È stato un giudice per tutta la vita – spiega Wilkinson – e ha deciso che ne ha abbastanza. Va in India per riscoprire il suo passato, riscoprire l’amore e soprattutto se stesso. Penso che sia una storia molto interessante, perché deve trovare un equilibrio fra umorismo e sentimento. La parte difficile è proprio far sì che il film non diventi sentimentale, perché sarebbe la rovina di una storia come questa".
"Il personaggio di Tom – aggiunge il regista John Madden – non è più in grado di tollerare il conformismo opprimente del mondo giudiziario quindi fugge da quella vita e parte per l’India, dove ha vissuto da bambino. Non realizziamo subito che in realtà sta cercando qualcuno che già conosceva, qualcuno che può fargli ritrovare la pace perduta. È un personaggio molto profondo, che dà un colore diverso al racconto".
Un racconto, in realtà, piuttosto fiacco e tediosello, non fosse per la bravura di tutti gli interpreti, un cast di stelle britanniche agées in cui brillano soprattutto la veterana Maggie Smith nel ruolo di Muriel, una bisbetica razzista che va a farsi operare a un’anca in India, e il Premio Oscar Judi Dench in quello della neo-vedova Evelyn travolta dai debiti lasciti dal marito.
Si sonnecchia, infatti, nelle eccessive due ore illuminate dalla fotografia calda e pastosa di Ben Davis, in grado di valorizzare le tavolozze cromatiche dalle dominanti rosso e arancio degli splendidi ma troppo turistici panorami esotici. Non è molto, e la narrazione si perde in intrecci prevedibili e senza guizzi: il destino infausto tocca poi, guarda caso, all’unico personaggio omosessuale, come si può immaginare dalla prima inquadratura in cui appare.
Un film piuttosto incartapecorito, un po’ come i protagonisti del viaggio che racconta.
Si può anche non vedere.

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