Nel 1964 Pier Paolo Pasolini pubblicò il volume Poesia in forma di rosa all’interno del quale i versi di Profezia, dedicata a Jean-Paul Sartre, raccontavano un’invasione di extracomunitari in Italia capeggiati da “Alì dagli occhi azzurri, uno dei tanti figli di figli, scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi”. A lui è ispirato il titolo del robusto dramma Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi, vincitore di due riconoscimenti al Festival di Roma, praticamente gli unici non contestati (Premio Speciale della Giuria e Migliore Opera Prima o Seconda).
Attraverso uno stile affascinante da cinema-verità a metà strada tra fiction e documentario che pedina costantemente i personaggi con la macchina da presa come nei film di Zavattini e dei fratelli Dardenne, si ripercorre una settimana, scandita giorno per giorno, nella vita di Nader (l’espressivo Nader Sarhan), un sedicenne egiziano che abita a Ostia, ormai naturalizzato italiano – parla in romanesco stretto -, e del suo amico coetaneo Stefano (Stefano Rabatti), col quale marina la scuola, organizza rapine improvvisate, viene coinvolto in sanguinolente risse in discoteca. Quando si innamora della dolce ragazza italiana Brigitte (Brigitte Apruzzesi), i genitori religiosi di lui si oppongono e Nader decide di non tornare più a casa cercando sistemazioni di fortuna dove gli capita (quando non vogliono sentirlo parlare di lei, li provoca urlando: «E che cosa dovrei fare? Fidanzarmi con un uomo?»). Ad ospitarlo inizialmente è un amico di famiglia che gli trova una sistemazione nell’affollato alloggio dove dorme con vari connazionali. In una scena purtroppo malriuscita, si scopre che costui è gay dal fatto che tenta di palpeggiarlo sotto le coperte dopo averlo portato in una sistemazione provvisoria all’addiaccio, causando la reazione violenta di Nader e la sua fuga repentina di prima mattina.
È un peccato che il personaggio omosessuale sia così solo abbozzato e sparisca bruscamente dalla narrazione senza alcun apporto giustificativo o approfondimento, quasi ad avallare la tesi che il suo interesse nell’aiutare Nader fosse solo dovuto ad un’attrazione erotica pulsionale. Peccato anche perché si tratta di una delle poche note stonate di un bel film vibrante e asciutto, interpretato con naturale aderenza da un cast di credibili adolescenti non petulanti e illuminato dalla mirabile fotografia di Daniele Ciprì che sfrutta al meglio la luce naturale (tutto l’apparato tecnico è lodevole, dal montaggio di Giuseppe Trepiccione al suono in presa diretta assai pulito firmato da Angelo Bonanni).
Il tema dell’integrazione sociale è affrontato senza facili (pre)giudizi né retorica moraleggiante attraverso il punto di vista “interno” di Nader che si considera italiano a tutti gli effetti e non riesce ad instaurare un dialogo costruttivo con i genitori: la scena in cui sbircia nella moschea la madre piangente è davvero intensa. Ma quando si tratterà di garantire una sorta di libertà sentimentale alla sorella ligia a scuola, sarà proprio Nader a dimostrarsi più integralista e possessivo sia di suo padre che di sua madre.
Da vedere.
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