New York, 1987, la parte di mondo più negletta nonché resistente è quella Lgbt, preferibilmente afromericana: trans, gay, transgender più varie altre modalità, trovano spazi nelle cosiddette ballroom e soprattutto nelle house gestite da chi ha più esperienza, veri centri di accoglienza ma con prospettiva glamour, come si conviene per gli anni in questione. È più facile guardare che descrivere nel caso di Pose, serie tv approdata da ieri su Netflix dopo mesi di clamore negli Usa. I creatori, Ryan Murphy soprattutto, con Brad Falchuck e Steven Canals, sono il meglio in circolazione da anni. Qui, le storie di questa Fame malfamata, intrecciano lo spirito e i mali del tempo, l’Aids ovviamente, con le famiglie nere piccolo borghesi che cacciano di casa i figli adolescenti gay e aspiranti ballerini. Oppure il mondo affluente: e qui gli autori cedono alla tentazione di mettere in scena un giovane manager che trova lavoro alla Trump Tower, salvo poi concedersi trasgressioni, tenerissime, con quel mondo opposto. La tenerezza, la normalità sbattuta in faccia al bigottismo, sono la chiave di Pose, dentro un passato che è meglio non confrontare con l’angusto presente.
Antonio Dipollina