La creatura di Ryan Murphy con il cast lgbt+ più ampio della storia arriva con molto ritardo in Italia, un motivo in più per vederla subito. Dal 31 gennaio su Netflix
Nel mercato frenetico delle serie tv di oggi, in cui i canali italiani fanno a gara per accaparrarsi i titoli di punta americani e trasmetterli il prima possibile, emblematico è il caso di Pose: l’ultima fatica del guru seriale Ryan Murphy, scritta con Brad Falchuk e Steven Canals, ha fatto il suo debutto nel luglio 2018 su Fx negli Stati Uniti, guadagnando molta attenzione critica (meno a livello di ascolti) e nomination prestigiose come ai Golden Globe, oltre a un rinnovo per una seconda stagione. Da noi invece ha latitato per mesi e mesi, e solo dal 31 gennaio sarà disponibile su Netflix (mentre era stato annunciato un suo arrivo anche sulla piattaforma Chili).
Evitando di pensar male, un tale ritardo potrebbe essere giustificato nella tematica marcatamente americana della serie, con elementi poco conosciuti dal pubblico italiano. Perché Pose parla della cosiddetta ball culture e del vogueing degli anni Ottanta, una sottocultura molto popolare nella comunità lgbt+, in particolare afroamericana, nella New York di quegli anni, la stessa cultura celebrata nel fondamentale documentario del 1991 Paris is Burning e in qualche modo oggi distillata nelle varie edizioni di RuPaul’s Drag Race (entrambi disponibili sempre su Netflix).
Eppure la visione di Pose è necessaria e universale proprio per il suo tentativo francamente rivoluzionario di inclusione e rappresentazione: mai prima d’ora si erano visti tanti attori (ma anche autori e registi) transessuali e di colore in un’unica produzione televisiva.
Entrare nelle varie storie che Pose racconta significa anche immergersi, appunto, nelle stratificazioni e nel gergo della cultura dell’epoca: emarginati e relegati ai margini socioeconomici della società, gli omosessuali – soprattutto gli omosessuali di colore – trovavano uno spirito di comunità nelle cosiddette ballroom, luoghi improvvisati in cui si organizzavano gare di danza e moda. Le competizioni erano infatti sfilate a suon di musica e ritmate da passi di danza estrosi e stilizzati, tutto spesso veicolato dall’aspirazione ai grandi magazine di moda (per questo il riferimento a Vogue, poi immortalato anche nella canzone e nel video di Madonna). Ogni concorrente veniva valutato da una giuria che si esprimeva in numeri (“10 across the board“, tutti 10, per chi convinceva al massimo) e si portava a casa dei premi improvvisati (“to snatch trophies” era l’ambizione principale).
Oltre al fenomeno di costume e spettacolo, a essere interessante è la rete sociale creata attorno a questa tendenza, e da cui partono le storie raccontate nella serie. Spesso cacciati di casa e costretti alla strada, i giovani lgbt+ dell’epoca trovavano rifugio presso le cosiddette Madri (mothers), performer di più lungo corso che li accoglievano nelle proprie houses, non solo dandogli un tetto condiviso con molti altri ma anche creando una microcomunità e una rete di supporto. “I ball sono i punti di incontro per le persone che non possono incontrarsi da nessun’altra parte“, così come “le houses sono la famiglia di chi non ha nessun’altra famiglia“, si dice nel corso degli episodi. Ma fra di loro queste case possono essere anche estremamente competitive.
Il primo episodio di Pose nasce proprio da uno scisma: Blanca (Mj Rodriguez) vuole lasciare un segno nel mondo e decide di lasciare la House of Abundance, guidata con pugno di ferro dalla regale ma anche glaciale Elektra (una Dominique Jackson che ricorda la bellezza irresistibile di Grace Jones), per fondare il proprio gruppo, la House of Evangelista (come la supermodel Linda). Raccoglie dunque attorno a sé altri emarginati come Damon (Ryan Jamaal Swain), un ballerino di enorme talento ma cacciato dai genitori per via della sua omosessualità, e Angel (Indyaa Moore), una prostituta che intreccia una contraddittoria relazione con Stan (Evan Peters), un uomo d’affari, sposato e con figli, che cerca in lei un senso di autenticità soffocato dalla sua ordinaria vita da yuppie.
Perché questa serie incarna al massimo, in effetti, lo spirito tragico e ruggente degli anni Ottanta. Siamo nel bel mezzo dell’edonismo reaganiano, rappresentato – con un aggancio sornione all’attualità – da Stan che fa carriera nella Trump Corporation (dove vediamo anche il James Van Der Beek di Dawnson’s Creek in un ruolo sorprendentemente perfido). Murphy, con il suo gusto per l’estetica camp e le connotazioni melodrammatiche, regala quadri impeccabili (spesso fin troppo costruiti) di quest’epoca eccessiva e irrisolta. Anche perché per i meno privilegiati quest’epoca ha significato al contrario un inferno di discriminazione e avversità: imperversa la pandemia dell’Aids (“una malattia che nessuno vuole curare”) e la comunità lgbt+ afroamericana diventa il sunto di tutti gli stigmi che un sistema capitalistica e reazionaria può infliggere.
Proprio in questo frangente Pose mostra il suo cuore più profondo: al di là dello sfarzo apparente delle ballroom, ma anche oltre il dolore di una società e di famiglie che continuano a respingere e umiliare, i protagonisti della serie si ritrovano legati non solo dal destino ma anche da una lotta impavida per realizzare i propri sogni e il vero io. Alcuni episodi ruotano attorno all’identità di genere, con alcuni personaggi transessuali che devono prendere decisioni importanti sulla riassegnazione sessuale. Identità, emarginazione, discriminazione, ma anche bisogno di comunità e ostinazione nella lotta per i propri diritti: pensare che questi temi siano lontani dal nostro orizzonte, tanto da giustificare un ritardo così lungo di messa in onda in Italia, è miope se non preoccupante. Ora Pose diventa finalmente disponibile anche da noi, non abbiamo più nessuna scusa per non occuparcene.