Tremate tremate le streghe son tornate nell’era del #MeToo
Guadagnino ambienta “Suspiria”, omaggio all’horror di Dario Argento, nella Berlino del muro. Sangue e misteri in una comunità di sole donne
Natalia Aspesi
Pare indispensabile aver visto, prima di Suspiria di Luca Guadagnino, 2018, Suspiria di Dario Argento, 1977. Non c’è critico di fama o cinefilo anche adolescente che non si getti immediatamente nel confronto, sempre a vantaggio del più vecchio, visto chissà quando, considerato un capolavoro dell’horror, una pietra miliare della cinepaura. Credo di essere tra i pochi che amano il cinema a non aver visto il film mito del papà di Asia, cui deve aver inoculato senza volerlo, o sì?, un po’ di Suspiria: evito gli horror visto che mi spaventano solo i film comici italiani, in più, senza offesa, avevo trovato non così essenziali i precedenti successi del regista Dario.
Mentre di Guadagnino, diventato una star mondiale con il recente Chiamami col tuo nome, mi piace l’eleganza, la sicurezza e la lontananza dal cinema italiano. Domanda, cosa mai è venuto in mente a questo per me ammirevole autore, rifare, 41 anni dopo, un mitico bailamme d’epoca, a parte l’averlo visto a 6 anni, come mai, così piccino?, ed essersene innamorato? Una passione per il rischio, un eccesso di sicurezza, un modo per cercare nuove strade, una ironia dispettosa, sempre coadiuvato dalla sua fedele musa, Tilda Swinton e questa volta anche da Amazon?
Trama: Berlino 1977, una gloriosa scuola di danza in palazzo molto Bauhaus, su una lugubre strada dove sempre piove o nevica, tanto per esaltare il grigio del muro di fronte, che è quello drammatico che separa la città Ovest dall’Est comunista.
È la meta di Susie, giovane americana che, trattandosi di Dakota Johnson, pare a caccia di guai in quanto uscita indenne ma non troppo dalle maratona di “50 sfumature di grigio, nero e rosso”: infatti si ritrova in una enorme sala hitleriana tra una serie di insegnanti pettinate come Eva Braun: al centro si staglia una gelida, lunga, immobile figura dall’abito monacale e dalla lunga treccia, la direttrice Madame Blanc, cioè Tilda Swinton: e si capisce subito che con la sua dolcezza e quel bel viso di pietra, ne vedremo delle belle. Si sa che per terrorizzare anche i più scafati horroristi non c’è bisogno che l’horror abbia un senso, racconti una vicenda comprensibile, anzi sarebbe una perdita di tempo e di paura. Si è preparati a diavolerie sanguinolente fini a se stesse come è obbligo nel genere: e infatti per mettere subito a disagio lo spettatore, le allieve danzano scalze, ognuna per conto suo, scuotendo i capelli, saltando, buttandosi a terra, raggomitolandosi, soffrendo, puro Pina Bausch: nessuna grazia e melensaggine, solo violenza e furore. Susie sarà capitata in un covo di streghe?
O forse lei stessa lo è: quando sbatacchiando il suo corpo come una ossessa compie un maleficio, cioè ad ogni sua contorsione, ovvio senza saperlo, una sua compagna, sola e prigioniera in un altro salone tutto di specchi e senza uscita, la subisce fino a rompersi tutta, annodando le ossa a pugno di scimmia: ci pensano a finirla alcune insegnanti, mediante eleganti falcetti d’acciaio che paiono disegnati da Marcel Breuer. Lo spavento comincia a manifestarsi o per la meno la suspense, ma Guadagnino non si accontenta né di Dario Argento né del famoso Malleus Maleficarum, l’antico manuale antistregoneria, e per storicizzare il film ci ricorda continuamente che siamo a Berlino Ovest, durante il famoso Autunno tedesco, con televisione e giornali che ansimano della Rote Armee Fraktion che ha già ucciso 33 persone, del suicidio in carcere di suoi componenti, dei terroristi palestinesi che hanno dirottato a Mogadiscio un aereo tedesco tenendo in ostaggio 91 passeggeri. Ma diciamo sinceramente, in questo contesto a noi che ce ne importa? Importano i corridoi bui e vuoti, quella che a tavola si taglia la gola, le fanciulle scomparse con tracce di sangue, facce insanguinate, il poliziotto senza mutande minacciato là sempre con falcetto, mani nere con unghie lunghissime tipo Maleficent, maschere, vermi, scarafaggi, ectoplasmi: per il pubblico un terrore garbato, una paranoia signorile, forse una lunghezza eccessiva. Diviso in sei atti e un epilogo, ha naturalmente il sabba finale; in un sotterraneo le fanciulle tutte nude sempre slogandosi con balzi e scrollamenti, andando in cenere, con piaghe purulente, e naturalmente c on il mostruoso cadavere vivente di madre Markos che fortunatamente non si era vista prima. Altre interruzioni all’horror: il vecchio psicanalista con apparecchio acustico che indaga, ossessionato dalla moglie perduta nell’Olocausto, l’origine di Susie, mamma morente, famiglia anabattista, quei mennoniti dediti alla povertà e carità, e come mai lei è diventata ballerina, strega o inquisitrice? Questo Suspiria è un film di Guadagnino, quindi ha immagini stupende, colori emozionanti, rispetto per un genere, l’horror, che non gli appartiene, cui aggiunge una scelta intelligente al tempo del MeToo: fa un film su una comunità di sole donne, ambientata negli anni del femminismo tedesco duro e separatista: nessun lesbismo, tutta la fisicità nella violenza e nella lotta di potere.
Poi c’è naturalmente per i più sempliciotti, me compresa, un gioco irrisolvibile: sarà davvero la stessa Tilda Swinton sotto la rugosità tremolante del vecchio psicanalista ficcanaso? E sarà sempre lei mostruosizzata nel corpo nudo, enorme, già in via di decomposizione della defunta madre delle streghe? Certo il team prostetico segnalato nei crediti finali, è lunghissimo.